Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
In principio era Lucio Fontana. Lui e lui soltanto era l’autore dei famosi tagli su tela. Nel 2019 è arrivata Cristina Camacho, che ricama sul taglio della tela una nuova poetica femminista: “C’è una superfice nella nostra cultura che noi dobbiamo rompere” dice “e c’è una superficie della tela che dobbiamo infrangere, per portare nuova vita in superficie (…) c’è molto più del semplice vuoto al di sotto”. L’artista colombiana riflette così sui limiti della nostra cultura, e ne infrange i tabù in una mostra recentemente conclusa nella galleria Praxis di New York. Titolo dell’esposizione, /ˈvʌlvə/. Scritta così, con l’alfabeto fonetico, Camacho ci costringe a pronunciare ad alta voce una parola poco praticata al di fuori del contesto medico: vulva. Non a caso è nota anche con il nome latino di pudendo muliebre, qualcosa di cui le donne dovrebbero vergognarsi. Per questo l’artista ha ritenuto urgente rompere il silenzio. In un’intervista per Hyperallergic, ha dichiarato: “A 30 anni ho imparato che ho sempre chiamato una parte essenziale del mio corpo con il nome sbagliato. C’è la vulva, e poi c’è la vagina, che all’esterno è semplicemente un buco. Viene dal latino “guaina”, dove si rinfoderava la spada. Ecco: usiamo un linguaggio completamente dominato dagli uomini, che definisce il sesso femminile come se fosse soltanto un buco”. Questo atteggiamento radica nella cultura patriarcale l’oggettivazione del sesso della donna e una completa ignoranza sulla corretta terminologia per conoscere a fondo il nostro corpo. Camacho fa della sua arte uno strumento per infrangere il muro e realizza, con tagli e ritagli, voluttuose opere su tela che rievocano le forme del sesso femminile, e poi interviene sulle tele incise, cucendovi sopra simboli che rievocano gli stereotipi a cui è spesso legata la donna. Anche la scelta del punto croce non è casuale: un’attività prettamente femminile, imparata dalla madre, che viene elevata a strumento poetico, eredità spirituale di tutte le donne che sono state messe a tacere nei secoli. Per quelle donne private della voce, il cucito era l’unica tecnica di resistenza, e potevano così raccontare le storie che non potevano pronunciare. Spesso nelle tele di Camacho compaiono fiori variopinti, legati all’idea della “deflorazione” della donna, immaginata come un fiore, in un’astrazione che la priva della sua corporeità. In tal senso, il taglio della tela non è una mutilazione violenta del sesso femminile, ma la ricerca di una nuova, elegante poetica in grado di restituire corpo e voce alle donne. La tela diviene materia viva, non più mero supporto alle icone dipinte. (Yasmin Riyahi)