Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
La nona conversazione di “Avanti&Indietro” è con Gea Casolaro, artista nata a Roma nel 1965 dove vive parte del tempo, mentre per un’altra risiede a Parigi.
Gea Casolaro lavora con la fotografia, il video e l’installazione, ma è soprattutto impegnata in progetti di arte pubblica e sociale, con interventi che agiscono direttamente nel tessuto urbano come in quello delle comunità.
Dal Vivaio Eternot a Casale Monferrato del 2016, a la mostra diffusa Nel corpo della città. Percorsi di inclusione sociale e trasformazioni urbane a Roma del 2018, passando per il workshop condotto con un gruppo di pazienti del Centro di Salute Mentale di Via di Monte Tomatico insieme ad alcune studentesse dell’Accademia di Belle Arti di Roma, negli ultimi anni hai dato forma a progetti complessi che hanno una forte relazione con le realtà e le comunità che ad esse si riferiscono. Una ricerca non proprio frequente in Italia, e per nulla facile, che mi pare abbia preso il via quando nel 2013 sei stata invitata in residenza ad Addis Abeba dall’Istituto Italiano di Cultura, dove hai messo in piedi un workshop con gli studenti dell’Alle School of Fine Arts and Design che ha dato forma ad un’opera collettiva esposta in due parti distinte, presso la Alle School e l’Istituto stesso.
Non secondariamente, in questo momento storico e soprattutto nella situazione italiana, il tuo lavoro si pone con decisione su un fronte alternativo, rivendicando la necessità dell’arte, e della cultura, ad intervenire in situazioni tanto delicate quanto dimenticate.
«Nessun nuovo lavoro nasce dal nulla ma è, piuttosto, la sintesi e l’evoluzione di lavori precedenti, di cui approfondisce spunti di riflessione, facendo avanzare la ricerca che si sta seguendo e ad ampliandone la portata di significato. Sharing gazes è la naturale evoluzione del percorso iniziato visivamente con Human Landscapes, e proseguito negli anni, in cui accosto più immagini dello stesso luogo da differenti prospettive, spaziali o temporali. Guardando i miei lavori in senso cronologico, la “linea evolutiva” è chiaramente visibile: Human landscapes (1997), At the same time dans le même paysage (1997), Parallel visions (2001-2002), Visioni dell’Eur (2002-2006), Doppio sguardo (2003), Permanente presenza (2007), Still here (2009-2013), Sharing gazes (2013) sono ognuno un passo ulteriore rispetto al precedente. Anche lavori come To feel at home (2002) e Due Palermo, uno sguardo (2003-2006), che accostano due luoghi diversi, ma simili, possono essere ascritti allo stesso concetto, così come il primigenio Maybe in Sarajevo (1998). O la serie Oltre lo sguardo (1998-2004), in cui il procedimento viene realizzato non con due immagini bensì attraverso l’audio, registrando i suoni dell’ambiente circostante dallo stesso punto da cui la foto è stata scattata, permettendo così di aggiungere ulteriori immagini mentali a quella della foto che si sta guardando. Anche il procedimento di lavorare insieme ad altre persone, dialogando con il loro punto di vista su dati spazi, era una pratica che avevo già utilizzato in precedenza: il già citato To feel at home (2002), Cartoline personali (2003), Seguendo i fili che formano il tessuto della città (2005-2006) sono lavori in cui ho esplorato dei luoghi specifici facendomi guidare dai disegni o dai racconti di chi li abitava, oppure da chi non poteva abitarli, come nel caso dei due Fuori da qui – Rebibbia femminile e Rebibbia maschile (rispettivamente 2005 e 2006) realizzati con detenute e detenuti del carcere romano. Sharing gazes (2013) è quindi un’evoluzione naturale dei lavori precedenti, ma naturalmente il fatto che sia stato realizzato ad Addis Abeba rende particolarmente significativa la metodologia del lavoro collaborativo di gruppo, un esempio di come dovrebbero essere le relazioni tra cittadini e stati africani ed europei. Discorso a parte va fatto per il Vivaio Eternot (2016), un lavoro particolarmente complesso poiché si tratta di un vero e proprio monumento di arte pubblica, sorto sul sito dove si trovava la fabbrica Eternit a Casale Monferrato, vivaio che produce piante del così detto albero dei fazzoletti (Davidia Involucrata) che ogni anno vengono donate dal Comune a chi si è distinto nella lotta all’amianto in Italia. In un certo senso, anche in questo lavoro possiamo ritrovare il concetto di dislocamento e moltiplicazione presente in tutte le opere che ho citato prima, ma in questo caso, “l’immagine” ovvero l’albero dei fazzoletti, anziché sommarsi sullo stesso luogo come nei lavori fotografici, si moltiplica altrove: il Vivaio Eternot è infatti un monumento diffuso, che ha la sua sede principale a Casale Monferrato ma che cresce di anno in anno sul territorio, disseminando il suo messaggio: ad oggi il monumento è anche a Roma, Pistoia, Monfalcone, Bari solo per citare alcuni siti in cui si ritrovano parti di questo monumento vegetale (http://www.comune.casale-monferrato.al.it/monumentodiffuso). Per quanto riguarda l’aspetto “impegnato” del mio lavoro se è questo a cui ti riferisci, penso che sia presente da sempre nella mia ricerca, ma con gli anni si stia aprendo sempre più a un coinvolgimento partecipativo delle persone che, come nel caso del Vivaio Eternot, devono investirsi in prima persona e prendersi letteralmente cura dell’opera che altrimenti non potrebbe esistere».
Gea Casolaro, Sharinggazes, Shiromeda #2 (2013)
Si, mi riferivo al tuo impegno nell’elaborazione di opere che agiscano per e con le dinamiche sociali nelle quali di volta in volta ti trovi, modificando anche una minima parte delle condizioni del reale nel quale agisci. Mi pare di poter dire che questa sia una delle poche possibilità dell’arte attuale di ri-trovare un ruolo nella società nella quale siamo, e che di fatto, volenti o nolenti, contribuiamo ogni giorno a formare, superando quella stanca tradizione estetica, anche recente, che evidentemente appare del tutto ridondante in questo tempo.
«L’estetica e ancor più la spettacolarizzazione dell’arte, sono per me qualcosa di cui diffidare: l’attuale tendenza a rendere ogni mostra un evento, ogni opera “instagrammabile”, ovvero buona come sfondo per un autoscatto fotografico da poter condividere sui social, con la scusa di attirare un maggior numero di visitatori sono invece, a mio avviso, un modo per addomesticare e annullare una possibile riflessione. Per me, quello che è significativo in un’opera d’arte è che sia uno strumento di analisi che aiuti a modificare il modo di pensare e quindi di agire. La qualità del pensiero è la cosa più importante, perché coinvolge ogni aspetto della nostra vita, da come ci rivolgiamo al vicino, fino a quali persone scegliamo per rappresentarci in Parlamento e quindi esprimere il Paese in cui vogliamo vivere. Il fatto di realizzare un’opera che inviti a questa riflessione sulla responsabilità personale all’interno della collettività, penso possa essere il modo più diretto per raggiungere una platea anche molto diversificata; spero possa servire anche a chi non partecipa direttamente, ma guarda dall’esterno, ad ampliare la propria visione della realtà, per comprendere più a fondo i meccanismi di interdipendenza che ci legano gli uni agli altri».
Nel suo saggio intitolato Communitas – Origine e destino della comunità, il filosofo Roberto Esposito comincia la sua riflessione dall’esame della paura come stato d’animo essenziale, vero e proprio elemento determinante della vita delle comunità e naturalmente della politica. Ragiona in questi termini sulla scorta del pensiero di Thomas Hobbes, filosofo e matematico inglese, autore del famoso saggio di filosofia politica intitolato Leviatano. Esposito ricorda che Hobbes stabilisce una chiara differenza tra paura e terrore, dando alla prima una funzione produttiva, dal punto di vista politico, mentre al terrore una capacità al contrario negativa e paralizzante. Quindi, dice Hobbes, e confermerà qualche secolo dopo Carl Schmitt, la paura è al fondamento dell’abbandono dello stato di natura e diventa elemento di coesione, istituzionale, nella formazione e nel mantenimento dello stato civile. Se guardiamo a quello che sta capitando in Italia e nel mondo in questi ultimi tempi, quelle riflessioni sembrano spiegare molte cose, o perlomeno ci aiutano a comprendere i meccanismi a fondamento delle parole e delle pratiche della politica attuale. Siamo però davanti ad un uso talmente strumentale della paura, tanto che una stessa parte dello Stato, della politica, vi si oppone, richiamando oltre che ad un’assunzione di responsabilità, nondimeno ad una riconciliazione tra legalità e giustizia. Difficile dire quale sarà l’esito di questo scontro, ma mi pare stia avvenendo in un momento decisivo della storia delle nostre comunità. Il fatto determinante è che non si tratta di uno scontro tra politici e tra i loro diversi interessi, o perlomeno questo appare meno rilevante; si tratta invece, e secondo me in un modo ben più importante, di un conflitto che ha al centro l’etica e il peso che deve avere nella vita delle comunità. Ritengo che l’arte e nello specifico il tuo lavoro si sia assunto in tal senso delle precise responsabilità agendo in luoghi e con comunità che, al di là della loro marginalità, hanno dovuto rielaborare quella paura in un sentimento di consapevolezza che è preliminare alla riconnessione con quelle comunità dalle quali sono state separate. Un processo che passa attraverso la conoscenza delle diverse realtà nelle quali sono le comunità e che esse stesse contribuiscono a formare, ma che soprattutto impone all’arte procedimenti multipli di immedesimazione, partecipazione e diffusione. Questo secondo me sta comportando anche un’inevitabile modificazione dei linguaggi dell’arte, una loro disarticolazione che le consenta di stare sempre più efficacemente in quelle realtà, come di tentare di contribuire alla loro ri-formazione.
«Come dici giustamente la paura può essere da stimolo per reagire di fronte a certe situazioni, ma come sempre, anche nel caso della paura, dipende dalla prospettiva che si adotta: di cosa o di chi si ha paura. Personalmente, ciò che mi fa più paura è il dispotismo in ogni sua forma: la sopraffazione, l’ingiustizia, la prevaricazione, la prepotenza, l’ignoranza. Se queste sono le cose che più temi al mondo, non perderai occasione per sottolinearlo. Per me il modo migliore è quello di invitare al dialogo. Esprimersi e mettersi all’ascolto dell’altro (cosa che purtroppo i dirigenti dei partiti di sinistra di tutto il mondo, salvo eccezioni, non sono più capaci più fare) sono due azioni indispensabili per cambiare prospettiva, per accrescere la nostra capacità di analisi della realtà, per renderci conto che ciò di cui tutti abbiamo veramente bisogno nella vita sono cose essenziali, come un ambiente salubre, cibo e acqua a sufficienza, un luogo caldo e asciutto dove vivere, vestiti per coprirci, una scuola equa dove imparare a riflettere sul mondo, persone istruite e coscienti con cui crescere insieme e lavorare per migliorare noi stessi e il pianeta. Questo è l’essenziale di cui ogni essere umano ha bisogno, e se ci fosse un impegno comune affinché tutti possano avere queste necessità di base, vivremmo tutti meglio. Sempre più persone se ne stanno rendendo conto, e nel mondo dell’arte come in altri settori, lavorano in piccole comunità per occuparsi del bene comune. Penso che il fatto di lavorare ad una dimensione locale sia indispensabile, perché ogni persona sia investita e si senta capace di dare un contributo visibile e concreto al miglioramento della propria comunità: penso che questa sia oggi la vera possibilità dell’agire politico».
Gea Casolaro, Bestiario vario (2018)
Tu hai lavorato negli anni con diverse piccole comunità locali, cercando di modificare la loro realtà attraverso la produzione di conoscenza e consapevolezza. Lev Tolstoj nel suo saggio del 1897 intitolato Che cos’è l’arte?, pubblicato in Italia da Donzelli Editore, rispondeva a quella domanda così antica e così attuale in questo modo: “L’arte è ancora uno dei mezzi attraverso i quali si attuano le relazioni tra gli uomini.”. Io la trovo una risposta che ha ancora oggi un senso, ma soprattutto che pone l’arte sullo stesso campo di possibilità della politica, dando ad entrambi un comune oggetto, la relazione tra gli individui, la possibilità di riconoscersi in qualcosa di comune e da condividere. Ma quello che m’interessa sapere è se nella tua esperienza quelle relazioni e quella conoscenza che hai reso possibili sono diventate un patrimonio persistente nel tempo, e se hanno innescato processi autonomi che sono andati nella stessa direzione?
«Non so rispondere: purtroppo non è possibile continuare a seguire tutte le realtà in cui si è operato, tutte le persone che si sono incontrate e sapere quanto il nostro intervento le abbia modificate nel profondo. È come piantare un albero di cui altri mangeranno i frutti: l’importante è seminare. Molti di quei semi non attecchiranno, da altri cresceranno delle piante che avranno vita breve, ma da una parte di quei semi, invece, riuscirà a crescere e a svilupparsi un bosco. Per questo è importante continuare a seminare il più possibile. La frase di Tolstoj si riferisce proprio a questo, a quanto l’arte sia il mezzo per attuare le relazioni tra persone non solo nel presente, ma anche attraverso il tempo. Ognuno di noi deve essere parte attiva, l’artista come il pubblico. Come diceva Duchamp: “Je crois sincèrement que le tableau est autant fait par le regardeur que par l’artiste.” [Credo sinceramente che il quadro sia fatto tanto dallo spettatore quanto dall’artista]».
Te lo chiedevo, in verità, soprattutto pensando al tuo progetto Vivaio Eternot, e forse la tua metafora sui semi e le piante non a caso gli ha fatto istintivamente riferimento. Ma il piano di ragionamento sul quale vorrei portarti ha piuttosto a che vedere con la realtà, o se preferisci con la percezione che abbiamo di essa oggi. Come sai, sono convinto che oggi l’arte sia una produttrice di realtà, una macchina coniugata che partorisce figli che diventano parti attive del mondo. E questo tanto dal punto di vista propriamente oggettuale che da quello delle immagini, includendo ovviamente in questa progenie anche la performance. Nel tuo lavoro ritrovo questa condizione tanto nei cicli di natura fotografica come Visioni dell’Eur, Doppio sguardo, Permanente presenza e Still here, quanto appunto in Vivaio Eternot.
«L’arte può produrre realtà perché dalla realtà proviene: l’artista è una persona che vive in una società complessa e con essa si confronta e ad essa reagisce. Il Vivaio Eternot è un bellissimo progetto reso possibile da una volontà istituzionale molto forte, quella della giunta comunale di Casale Monferrato del Sindaco Titti Palazzetti, dell’Assessore alla Cultura Daria Carmi e dell’Assessore all’ambiente Cristina Fava, che per ricordare la tragedia delle migliaia di morti da amianto causate dalla fabbrica Eternit hanno voluto un monumento che coinvolgesse la cittadinanza. Naturalmente il Vivaio Eternot, essendo un monumento vivo, per restare attivo ha bisogno, oltre che delle cure dei cittadini anche di una continuità istituzionale, perché il suo meccanismo di diffusione che va a sottolineare le azioni positive di cura, denuncia, educazione alla tematica ambientale e bonifica dell’amianto in tutta Italia, prevede un impegno nel tempo di cui anche le giunte successive dovranno farsi carico. Ma a parte la realtà specifica di questo monumento così particolare, penso che in ogni caso l’artista e la sua opera, per poter incidere sulla realtà in modo significativo, abbiano bisogno di una triangolazione con altri due soggetti indispensabili: il pubblico e le istituzioni».
Gea Casolaro, Still here
Sono d’accordo con quello che scrivi a proposito del fatto che per incidere sulla realtà l’arte ha bisogno del pubblico e delle istituzioni, e cioè della società e della politica, di un confronto e di una collaborazione attiva con loro. È la cosa che in definitiva manca nel nostro Paese, dove, per dirla con Edgar Morin, siamo ancora nella fase di percezione di un’arte “insularizzata”, dove cioè è la bellezza dell’arte del passato, “l’emozione estetica”, utilizzando ancora le parole del filosofo francese, ad essere considerata prima di tutto il resto. L’arte di oggi, come dimostra anche il tuo lavoro, sta invece cercando di stabilire connessioni con la complessità dell’ambiente in cui è, di passare dalla condizione di isola a quella di continente, tanto per dare continuità spericolata alla metafora. A questo proposito per l’arte di oggi ritengo sia più corretto parlare di “emozione etica”, come della vera priorità realizzativa e fruitiva.
«Ogni volta che rifletto sulla diffusione della cultura in Italia, mi viene in mente la frase che pronuncia il regista interpretato da Orson Wells nel film La ricotta di Pasolini, quando il giornalista gli chiede cosa pensi della società italiana: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”. Che ciò fosse vero nel 1963, quando l’Italia proveniva da decenni di dittatura fascista ed era ancora a prevalenza rurale è comprensibile. Ma da allora, anziché evolversi e crescere, il livello culturale della borghesia italiana, e quindi della classe dirigente, e quindi di tutto il Paese, continua a sprofondare in un abisso: in Parlamento abbiamo dei rappresentanti che ostentano la loro ignoranza come una bandiera, con sempre maggiore fierezza e arroganza. Il problema risale agli anni Ottanta, con l’ascesa di Berlusconi nel panorama mediatico e poi in quello politico, e con il suo governo in accordo con la Lega nord. La loro avanzata ha dimostrato che si può arrivare al massimo grado sociale e di potere, ovvero scrivere le leggi di una nazione, essendo degli ignoranti patentati. Da allora, il messaggio che quella classe politica promosse, continua a fare danni, come vediamo con l’attuale baggianata dell’”uno è uguale a uno” in materie specifiche come l’economia, la scienza, l’educazione, la cultura, fino alla politica stessa. È chiaro che tali classi dirigenti faranno di tutto per affossare l’educazione e la cultura in ogni forma, poiché lo studio e la cultura sono fondamentali per sviluppare la capacità di analisi, il senso critico, l’apertura mentale, la comprensione profonda dei fenomeni sociali ed economici, insomma, tutto ciò che trasforma “il popolo” in cittadinanza. Nessun ignorante che ha conquistato il potere a furia di slogan, con il voto di persone più ignoranti più di lui, promuoverà quindi l’educazione e la cultura. Nei suoi primi vent’anni di vita la Rai trasmetteva in prima serata Umberto Saba, Eugenio Montale, Dario Fo: per questo gli anni ’70 sono stati i più fervidi nella produzione culturale italiana e nella realizzazione di leggi come quelle sul divorzio, sull’aborto, sullo stato di famiglia e lo statuto dei lavoratori. Il cervello non è differente dal resto del nostro corpo: se mangi cibo avariato il tuo corpo si ammala, se immetti nella tua mente solo volgarità, superficialità e arroganza, tutta la tua esistenza e il tuo stare al mondo saranno intossicati.
L’unico modo per combattere questa barbarie dilagante è continuare a seminare poesia: in ogni sua possibile forma, con ogni possibile mezzo».
Come scriveva William Wordsworth nella prefazione alle sue Ballate Liriche (1798), scritte insieme a Samuel Taylor Coleridge: “Poetry is the first and last of all knowledge”. E la conoscenza dovrebbe tornare ad essere la ragione prima ed ultima di tutto ciò che siamo e facciamo.
Raffaele Gavarro