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La quarta conversazione di “Avanti&Indietro” è con Ivana Spinelli, nata ad Ascoli Piceno nel 1972 e oggi residente tra Pesaro, Bologna e Berlino. Il suo lavoro è da sempre fortemente impegnato nell’analisi della realtà, nella comprensione dei meccanismi in cui si articola, presieduto dall’inevitabile consapevolezza di poterla osservare, comprendere e restituire dal suo singolare punto di vista.
Comincerei da qui, dalla realtà, volutamente scritta con la minuscola ad indicare l’esperienza multipla e diversificata che ciascuno di noi fa di essa. Eppure io credo che quando decidiamo di affrontare quest’argomento, quando esso diventa soggetto del lavoro di un artista, di qualsiasi ambito espressivo, in qualche misura la realtà subisce un processo di oggettivazione che, almeno in linea di principio, si pretende condivisibile. Cos’è dunque che metti in comune della tua idea di realtà?
«Il presupposto è tentare un ordine, senza alcuna garanzia di riuscita, se non parziale, provvisoria, temporanea. Il mio processo di oggettivazione è un processo “digestivo”, da ruminante; cerco di assimilare e ordinare dati per poi restituirli in forme autonome. Mi aspetto che sia condivisibile il dato visivo, che cioè una sagoma di un corpo sembri la sagoma di un corpo, che un grafico richiami un grafico, una radice una radice, (anche se quello che mostro spesso è solo una parte del visibile), ma da un punto di vista nuovo. Una realtà rimescolata. All’inizio dei miei studi mi era rimasta impressa quella frase legata al surrealismo: “bello come l’incontro casuale tra una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”. Ecco, nel mio lavoro l’incontro non è casuale, e l’ombrello viene smembrato e ricucito».
Global Pink Bag, tessuto, paillettes, 2006
Minimum, il tuo ultimo processo “digestivo”, è una ricerca sul lavoro, sulle leggi che regolano il salario minimo in tutti quei paesi nei quali si trova la produzione fisica del made in Italy. Hai affondato le mani e la testa in una delle questioni più attuali e meno visibili della nostra economia nazionale ultraliberista, e a tutti gli effetti colonialista, mettendo in relazione estetica, linguaggio, capitale, produzione, trascendenza e sussistenza, con al centro il corpo, l’essere umano. Hai costruito grafici, rimesso in forma estetica i testi di legge dei vari Paesi, realizzando di recente anche una performance a Roma nella quale i testi venivano letti nella lingua originale contemporaneamente, dando luogo ad una babele di suoni distinguibile solo se ti avvicinavi ai singoli lettori. Qual è la ragione per la quale hai voluto indicarci questa realtà?
«La verità è che non riuscivo a togliermi dalla testa la domanda sul salario minimo, cosa fosse, a cosa servisse. Deve essersi insinuata mentre lavoravo al meta-brand Global Pin-Up, in quel caso mi interessava il valore estetico del dress code, cosa puoi trasmettere attraverso un linguaggio così pervasivo e ancora poco codificato. Poi mi chiedevo chi produce gli abiti, dove si trova, che vita fa. E mi sono messa a cercare, ma mi sembrava ci fosse sempre una grande distanza tra i termini usati e la realtà della vita delle persone. Chi e cosa decide che una persona diventa un lavoratore/ lavoratrice? Cosa può fare una persona grazie a un salario minimo? Ha la garanzia di una vita dignitosa? Ho pensato di trovare un punto fermo a partire dalle leggi che regolamentano il lavoro, ma come dicevo le definizioni tentano di descrivere, regolamentare, creano norme, normano, normalizzano, ma la persona dietro a tutto ciò dove si rintraccia? Dov’è il corpo, il sentire, la tensione, l’attenzione, la spiritualità e il sogno, dietro queste norme? Se la legge stessa del salario minimo stabilisce un tetto spesso vicino o sotto la soglia di povertà, sta sancendo la povertà per diritto? E se questa idea del lavoro tiene in piedi la nostra identità, cosa fare senza? Ovviamente penso che il lavoro sia strettamente legato alla nostra identità, all’idea che abbiamo del mondo. In questo momento storico il lavoro sta cambiando e con esso le condizioni di vita di molti, in uno scenario sempre in movimento che convalida l’idea di un caos, di una deregolamentazione lecita, anzi necessaria, nella crisi perenne. Per questa ragione ho avvertito la necessità da una parte di fissare dei punti, la legislazione, e dall’altra di pensare a dei paradigmi per affrontare la tempesta, quindi la traduzione. Tradurre contiene anche un’idea di movimento, lo spostarsi da un luogo all’altro, da una weltanschauung all’altra. Come simboleggia il lavoro La Zattera».
MINIMUM: VOCI, performance, Museo Barracco, Roma 15.11.2017
Da diverso tempo penso e sostengo che sia più corretto parlare oggi di una necessità e di una vocazione etica dell’arte, piuttosto che di un suo impegno politico. Certo l’una non esclude l’altro, anzi, ma mi pare che la prima condizione garantisca all’arte una possibilità espressiva meno obbligata dalle univocità tematiche che di volta in volta emergono nell’attualità. Soprattutto l’obbligo delle risposte, che è proprio della politica, è sostituito nell’arte dalla forza delle domande, che di certo non sono meno efficaci, anche politicamente. Anche se non penso che l’etica possa disattivare, o sostituire tout court la necessità estetica, propria dell’arte, non di meno sono convinto che essa la stia ricondizionando a delle modalità di forma e di senso.
«Certo, è un distinguo importante che fai tra etico e politico. Molte domande possano essere toccate, sviscerate e sviluppate dall’arte, anche mettendo in luce delle contraddizioni, ma la forza delle domande sta nella loro necessità interiore. È importante, secondo me, non indossare delle maschere. Credo ad esempio che un dovere etico essenziale sia nell’insegnare il linguaggio artistico ai bambini, perché possano da subito sentire l’arte come un modo di pensare e interpretare il mondo, una filosofia incarnata. Oggi non solo le immagini sono complesse e mai innocenti, ma gli oggetti che ci circondano sono elementi intelligenti, intrisi di progettazione e pensiero. Ecco, credo che l’arte possa contribuire ad arricchire il pensiero e di conseguenza la capacità di scegliere, creando dei punti di riferimento, una disseminazione solo all’apparenza incoerente di punti».
Cannot See All, disegno acrilico e matita su tessuto, sculture vari materiali, Atelier Kreuzberg, Berlino, 2015
Hai trascorso parecchi anni a Berlino, dove ti sei confrontata e hai stretto relazioni con artisti che lavorano su idee e problematiche analoghe a quelle che affronti. In Italia hai trovato sensibilità e situazioni ugualmente vicine al tuo lavoro?
«Frequento diversi artisti e non necessariamente condividiamo il tipo di lavoro ma c’è comunque scambio e rispetto, con molti altri è difficile incontrarsi perché siamo in città diverse e si sopperisce con Skype o altri potenti mezzi. Sono sincera però, a volte ho nostalgia di qualcosa che ho sperimentato solo in parte, di un collettivo, di quel senso di comunità che ti rende più forte e meno solo. Chissà mentre te lo dico forse una parte inconscia di me sta spingendo per provocare qualcosa del genere».
Perché pensi ci siano i presupposti e le persone con le quali condividere un progetto collettivo? Io credo che ce ne sarebbe davvero bisogno e non solo per gli artisti, ma con la necessità di coinvolgere critici e curatori. Non penso tanto ad una dimensione progettuale, a qualcosa che porti necessariamente ad un risultato di tipo espositivo o similare, ma quanto ad un processo che porti all’elaborazione di una più chiara presa di coscienza, e di ragionamento, sul nostro ruolo nella società attuale.
«Certo, si può creare un dialogo, un confronto per orientarsi, trovando dei punti abbastanza fermi. Potremmo fissare delle aree tematiche e sviscerarle. Difficile. Il nostro ruolo nella società è in un paradosso continuo: sembra che l’arte non serva a nessuno, ma del resto il suo potere non è proprio di non “servire” nessuno? E invece tanta arte serve, e molto. Servire, non servire, seguire le convenzioni, tradirle. Bisognerebbe reinventare però il linguaggio, le categorie, perché tutto è estremamente interconnesso: sensibilità, consumo, vetrina, selfie, estetica. Come l’etica si inserisce in tutto ciò? In una scatola a sé stante, dura e pura? o in un flusso difficile da bloccare, dove di volta in volta per scegliere devi ritrovare in te qualcosa di umano? o, al contrario, devi perdere qualcosa dell’umano per essere meno feroce? Sto lavorando proprio ora a un “pensiero prima del pensiero”, rappresentato dallo zig-zag, uno tra i segni con cui gli esseri umani esprimevano la loro idea del mondo, molto prima della filosofia, prima che fosse inventata l’idea dell’”uomo”».
MINIMUM: VOCI,installazione, Museo Barracco, Roma ,15.11.2017 Foto Emanuela Barilozzi Caruso
Reinventare il linguaggio. Lo diceva già Valéry nel 1934 e lo pensava senz’altro Benjamin subito dopo. Ma era un’idea presente anche in Adorno, quando nella Teoria Estetica (1970) parlava, e proprio all’inizio, de la perduta ovvietà dell’arte: “È diventato un’ovvietà il fatto che nulla di quello che concerne l’arte sia più ovvio, né in essa né nel suo rapporto con l’intero, nemmeno il suo diritto ad esistere”. Mi sto sempre più convincendo che quella, questa, perduta ovvietà dell’arte non sia più possibile ricondurla solo ad una perduta ovvietà estetica, e quindi linguistica, ma riguardi proprio la perduta ovvietà del suo ruolo, che consegue di certo ad un evidente “disagio dell’estetica”, per dirla con Rancière, come specificità delle arti visive. Il diritto ad esistere dell’arte, che evidentemente si autodetermina quotidianamente in tutto il mondo, sembra però sfumare in una libertà deregolata e che confluisce facilmente nel campo di una creatività illusoriamente accreditabile a tutti. Insomma oggi non credo che la questione sia nella reinvenzione del linguaggio, ma piuttosto in quella del senso. Se pensi al segno dello zig zag, come stai dicendo, e solo per fare un esempio pratico, devi pensare al suo senso, come fai, ma non solo grafico, linguistico, quanto a come questo segno e il lavoro che ne conseguirà possa essere oggetto di un’elaborazione di senso nel contesto in cui siamo.
«Penso al senso del contesto, assolutamente. In questo lavoro ci penso facendo un salto in una realtà alternativa ma esistita, appurata dall’archeologia, una società diffusa in Europa e nel Mediterraneo dal 7.000 a.C. in cui l’organizzazione era gilanica e pacifica. Raccolgo i segni impressi sulle ceramiche per organizzare una sorta di alfabeto, degli esercizi di scrittura, spostando l’inizio del pensiero a un periodo molto anteriore a quello che viene segnato come inizio della filosofia. Una sorta di protofilosofia.
É un pensiero e un gesto immaginativo: come sarebbe stata la società se i presupposti fossero stati diversi? Senza gerarchie e rapporti di potere, ma basata sulla mediazione, senza la rimozione dell’idea della morte, ma con una consapevole e profonda immersione nella ciclicità. Mi colpisce molto l’idea di quel pensiero profondamente incarnato, e tento d fare precipitare quella sensibilità nell’oggi. Perché il senso è in un linguaggio che è nei segni ma deborda continuamente, esce fuori, è un linguaggio fuori di sé. Questo non significa abbandonarsi al caos ma, tra un codice e l’altro, muoversi a Zig Zag. In questi giorni sto leggendo un libro di Calasso che parla del tempo che stiamo vivendo come di una “età dell’inconsistenza”. Un disagio non solo estetico come ci dicevamo, ma che definirei propriamente umano, dove il senso della vita alcuni lo trovano nell’atto estremo dell’uccisione e del terrore. Com’era per le mie Global Sisters. Un mondo che si sta frantumando, di sicuro. Ma se fosse l’idea di “homo” a frantumarsi? Qualche anno fa ho cominciato un lavoro sulle radici delle piante, una delle intelligenze altre che nella storia del pensiero abbiamo escluso. Ma se l’umanità si estinguesse, le piante ci metterebbero pochi anni a ripopolare la terra».
Sempre se non riusciremo a estinguerle prima, intendo le piante.
Raffaele Gavarro