Ce lo immaginiamo, il Nostro, che passeggia per Porta Nuova, magari mentre canticchia un motivetto, quella strofa: “passa la Vittoria sfavillante in un baglior, nel cielo d’ or”. E lo immaginiamo, poi, svoltare l’angolo di via Daniele Manin, Milano, e trasalire, quando gli si para davanti la sua statua in bronzo, firmata da Vito Tongiani, colorata da chiazze shocking pink. È l’8 marzo e di lì sono appena passate le ragazze terribili della Giornata Internazionale della Donna. La sorpresa sarebbe stata evidente. Ma come, lui che ha vissuto nel deserto come Lawrence d’ Arabia, che ha conosciuto e guidato truppe di ascari nella vecchia Abissinia, che ha incontrato personalità come Spear, Hitler e Mussolini, proprio lui ridotto a un chewing-gum americano?
Oltre ad aver aderito al regime fascista, l’accusa per Indro Montanelli è quella di aver avuto un rapporto di madamato durante la Guerra d’ Etiopia, una relazione di tipo matrimoniale temporaneo con Fatima, eritrea di 12 anni. Per le autrici, un atto di giustizia e di riscatto contro un “fascista stupratore”. Un gesto rozzo e vandalico, con annessa perdita di “senso della storia”, per gli altri.
Non è il caso di aggiungere opinioni al confronto tra giudizio morale universale e anacronismo storiografico. E non ce ne voglia Montanelli ma bisogna ammettere che l’atto pittorico ha espresso un’indubitabile forza comunicativa. La foto della statua colorata di rosa, “opera” del movimento femminista #nonunadimeno si è diffusa rapidamente sui social e sul main stream.
Certo, la pratica di imbrattare – o menomare – statue è arte antica, violenta o ironica. I Buddha di Bayman abbattuti dai talebani, le statue mariane distrutte nelle chiese francesi, le effigi di Cristoforo Colombo decapitate o ricoperte di sangue durante i Columbus Day, le centinaia di statue di Marx e Lenin rovesciate in tutta l’ex Unione Sovietica dopo il 1989. Ma anche le simpatiche coloriture da Capitan America, Ronald Mc Donald, Superman e Santa Claus dei soldati sovietici ritratti nel monumento celebrativo a Sofia, fino alla Sirenetta di Copenaghen imbrattata di rosso per ricordare la sanguinosa caccia alle balene.
Eppure, queste azioni esprimono un simbolismo, tutto sommato, netto, chiaro: colpire l’autorità, rovesciarla nel suo luogo più duro e rappresentativo. L’esito di questa azione di disturbo su Montanelli, invece, appare prima estetico che simbolico e politico. La pittura rosa ha illuminato la scultura in un piacevolissimo gioco cromatico. La luce notturna, i fari, i riflessi opachi e bronzei in contrasto con i versamenti di colore liqueforme, caramelloso e scintillante. Un risultato ai limiti della spontaneità situazionista che, anziché aggredire il dispositivo ambientale percepito come dispotico, cioè la statua, ne ha prodotto un senso di liberazione estetico, addolcendo e depotenziando la rigida e dotta metaforizzazione della figura bronzea. Due mondi, due universi paralleli, il femminismo contemporaneo e la memoria storica e monumentale, si toccano e si fondono, con i loro tracciati così diversi e distanti, in una sensazione complessa, allo stesso tempo disturbante e produttiva.
La ormai sistematica e socialmente indotta superfatazione/distruzione dell’immagine contemporanea non fa altro che determinare una comunità paradossalmente cieca, che si esprime attraverso click tattili e visivi. Eppure, ogni tanto, in moto sottile e misterioso, emergono alcune rappresentazioni con un forte potere evocativo. Non sono immagini nette e limpide ma frastagliate, sprofondate, capaci di aprire una faglia tra più mondi e operare uno squilibrio nel nostro comune senso visuale. Sta a noi ascoltarle e metterne insieme i frammenti.
Domenico Sgambati