Categorie: lavagna

Cultura e Politica

di - 5 Settembre 2016
La cultura ha bisogno di risorse; lo Stato non ne ha a sufficienza; c’è dunque la necessità di un aiuto da parte di soggetti privati. Sillogismo ineccepibile.
Eppure si tratta di un sillogismo che non esaurisce affatto la questione, essendo molto evidente la necessitĂ  di chiarire le modalitĂ  con le quali mettere in atto questa sinergia.
Ma cominciamo con l’esaminare le ragioni per le quali questa è una discussione che ha un verso politico prima che economico. Lo ha senz’altro e innanzitutto perché, come recita l’articolo 9 della Costituzione, spetta alla Repubblica promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, nonché tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. La questione è dunque stabilita da un principio fondante politico, contenuto in quella che è la legge fondamentale, se preferite la prima legge, della Repubblica Italiana e che regola il nostro essere cittadini uguali e con la possibilità di essere ugualmente sviluppati (art.3).
Al momento questo principio è ineludibile e non soggetto a variabili interpretative.
Uno dei pregi della nostra Costituzione è la chiarezza del suo testo, determinata dall’esattezza delle parole e dalla sintesi esemplare con cui sono redatti gli articoli. Si dirà che la Costituzione è stata approvata nel 1947 e che dunque i tempi sono sensibilmente mutati. Affermazione tanto vera quanto retoricamente fasulla, perché se è difficile negare cambiamenti di molti aspetti sociali, culturali e così via, di certo non possiamo dire lo stesso per i principi che regolano la nostra vita insieme.

Analizziamo dunque meglio, e non interpretiamo, quanto affermato dall’articolo 9. Ci sono due temi che vengono posti sotto l’azione della Repubblica, della cosa pubblica: il primo riguarda la promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica; il secondo si concentra sulla tutela del paesaggio e del nostro patrimonio storico artistico. Per quest’ultimo aspetto non posso che rimandarvi, a proposito dei rapporti tra pubblico e privato, alle ineccepibili argomentazioni di Privati del patrimonio di Tomaso Montanari, edito da Einaudi nel 2015. Buona parte di esse valgono anche per la prima parte, e nel nostro specifico per quell’ambito che oggi definiamo come ricerca e produzione culturale contemporanea. Ovviamente non tutto. Bisogna infatti cominciare a fare delle distinzioni tra questi due ambiti diciamo temporali, perché quando si parla di cultura in Italia si fa pressoché unico riferimento al nostro patrimonio artistico storico. Lo fanno la maggior parte dei politici così come la maggior parte delle aziende, che appunto scelgono molto spesso di destinare le proprie risorse al restauro e alla valorizzazione di monumenti che afferiscono al proprio territorio, o altrimenti dotati di grande visibilità, piuttosto che impegnarsi a sostenere progetti, ricerche o istituzioni contemporanee. Le ragioni dipendono certamente dall’elevata riconoscibilità culturale del nostro passato, che bene o male è parte della formazione scolastica di quasi tutti noi, e che gode di conseguenza di un’immediata individuazione come “prodotto d’arte” dotato di tutte le certezze estetiche del caso. Tanto per capirci tra Caravaggio e Boetti, la scelta per un investimento in tutela e sostegno nel 99percento dei casi cadrà sul primo.
Non si tratta qui ovviamente di aprire un assurdo contenzioso sul maggiore o minore valore artistico tra passato e presente, quanto di sottolineare da un lato la pericolosità di una univocità di senso con il quale si sta usando la parola cultura in Italia, e dall’altra di denunciare la mancata applicazione di un articolo essenziale della nostra legge fondamentale. Due argomenti che inevitabilmente s’incrociano in più punti.

La pericolosità è chiaramente inscritta nell’esclusione del nuovo dall’orizzonte culturale di un presente nel quale pure si è. Naturalmente è un’esclusione che ha immediate ripercussioni gestionali nonché d’investimento sul settore. Il Decreto Cultura del Ministro Franceschini, divenuto legge il 29 luglio del 2014, con l’introduzione dell’ArtBonus prevedeva la deducibilità del 65percento delle erogazioni liberali effettuate in ciascuno dei due periodi d’imposta successivi al 2013, per poi passare al 50percento delle erogazioni liberali effettuate nel periodo d’imposta successivo al 2015. La legge di stabilità del 2016 ha poi reso permanente queste quote con limiti di spettanza del credito pari al 15percento del reddito imponibile per persone fisiche ed enti che non svolgono attività d’impresa, mentre per i titolari di reddito d’impresa la spettanza è stata fissata al 5permille dei ricavi annui. Ma appunto gli interventi che prevedono l’applicazione dell’ArtBonus sono: “a) Interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici; b) Musei, siti archeologici, biblioteche e archivi pubblici; c) spese d’investimento per Teatri pubblici e Fondazioni lirico sinfoniche.”. Come si vede nulla di esplicito riferito alla contemporaneità.
In definitiva dai beni culturali del passato si può tirare fuori del denaro accrescendo soprattutto il loro appeal turistico – e tralascio qui le molte argomentazioni di dubbio, perlomeno, sulle conseguenze prevedibilmente disastrose derivanti da una tale grossolana impostazione metodologica -, mentre da quelli contemporanei no.

Viene da sorridere considerando che il 99percento dell’arte contemporanea dipende dal sostegno dei privati per mezzo ovviamente del mercato, che direttamente o meno provvede a sostenere la ricerca. Senza contare che dal nord al sud della penisola è l’attività delle fondazioni private a svolgere un ruolo decisivo nella scena espositiva italiana. Mentre i musei pubblici, tutti dipendenti da amministrazioni locali o regionali, tranne il Maxxi, hanno, chi più chi meno, evidenti difficoltà di finanziamento pubblico, con la conseguenza di non riuscire a fare programmazioni espositive coerenti, trovandosi spesso costretti ad accogliere proposte prefinanziate. Una vulnerabilità resa ancora più grave dal fatto che il sistema museale del contemporaneo in Italia è parcellizzato e privo di regole comuni, partendo dalla diversificazione delle modalità di nomina delle direzioni e arrivando fino alla mancata definizione della loro mission, in particolare nei confronti del territorio sul quale insistono. Questioni che sono senz’altro tra le cause sostanziali dell’incapacità di dare forma ad un sistema forte dell’arte italiana. Il decreto-legge cultura, ma più in generale il disinteresse verso il contemporaneo da parte della politica, determinato da un’evidente insufficienza culturale dei suoi protagonisti e nondimeno dalla convinzione che il sistema funzioni bene o male a prescindere da interventi legislativi dedicati, sta producendo dunque un arretramento dell’arte italiana sulla scena internazionale, ma anche e soprattutto un’involuzione della ricerca e della qualità fruitiva.
Ci sono poi conseguenze indirette, ma non per questo meno importanti, riconducibili a questa tendenza a considerare il patrimonio storico come la “nostra cultura”. Una fra tutte è individuabile nella recente necessità dell’arte contemporanea di scegliere ambientazioni espositive, e spesso anche di relazione di senso, proprio con il nostro patrimonio storico, suscitando più di un dubbio sulla coerenza culturale di tale opzione, come da me già segnalato qualche tempo fa.
La facilità delle suggestioni indotte da location straordinarie, alle quali spesso si dice che gli artisti stranieri e il pubblico non possono resistere, cosa che invece capita altrettanto spesso con i nostri musei contemporanei con scarsissima capacità di attrazione, diventa così l’ulteriore causa della diminuzione di visitatori nei centri del contemporaneo ma, anche e prima, dell’opportunità di investire nella loro costruzione e attività. Perché infatti andare in un museo d’arte contemporanea, se puoi vedere una mostra dello stesso genere in un museo d’arte antica o in un’area archeologica? Chi non sceglierebbe di avere due al prezzo di uno? E perché un curatore non dovrebbe progettare una mostra in un luogo storico, data la maggiore facilità di reperimento di risorse?

Ma è anche l’idea di trasmettere un vincolante rapporto con il passato a determinare perplessità su un modello espositivo che, nella sua pur affascinante unicità, produce un distacco dal senso dell’arte di oggi, finendo per marcare un’ulteriore diversità da quanto in atto sulla scena internazionale. E questo non solo da un punto di vista della produzione ma anche, e forse in modo più decisivo, da quello della fruizione e della didattica conseguente. L’implicito senso di continuità che si stabilisce attraverso questa pratica tra contemporaneo e antico, è infatti ingannevole e fuorviante e alla lunga non potrà che produrre l’ennesima difficoltà verso la comprensione dell’arte del presente.
Le responsabilità della politica, il peso delle sue decisioni, sono dunque fondamentali, e la mancata applicazione dell’articolo 9 della Costituzione, come di provvedimenti suppletivi capaci di incentivare e regolare in modo uniforme sul territorio nazionale l’intervento dei privati, è senz’altro un vulnus al quale si dovrà porre rapidamente rimedio, anche e solo in nome del rispetto della legge.
A proposito poi delle regole con cui attuare la sinergia tra pubblico e privato, è evidente che indipendenza e rispetto dell’autonomia delle direzioni artistiche e scientifiche dovranno essere esplicitamente previste. Il caso che a suo tempo, nel 2014, si profilò nella relazione tra Macro di Roma ed Enel, con l’ipotesi allora più che probabile di un museo pubblico che stava per essere praticamente ceduto ad un’azienda, in nome della solita mancanza di risorse e più credibilmente per un disinteresse dell’amministrazione presieduta da Ignazio Marino, deve essere infatti considerata un’eventualità sempre altamente probabile e verso la quale agire dunque in modo sistemico e preventivo. Porre dei limiti al privato, alla sua presenza nello sviluppo delle strategie del museo, non significa affatto svalutarne l’impegno, quanto al contrario renderlo trasparente e quindi maggiormente apprezzabile dalla collettività. Perché la trasparenza è partner indissolubile della legalità e sarà bene cominciare a pretendere sempre e in ogni caso il rispetto di questo principio essenziale.
Raffaele Gavarro

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