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Qualche sera fa su La7 è andato in scena il confronto tra il Presidente del Consiglio Matteo Renzi e il massimo costituzionalista del nostro Paese Gustavo Zagrebelsky, sul tema del referendum.
Da subito è risultato un dibattito asimmetrico tra chi come il Premier dispone di una grande capacità comunicativa, di sintesi e di focus sulle questioni individuate come essenziali, e chi come Zagrebelsky ha un tono ed espone degli argomenti con tempi molto poco televisivi, manifestando la necessità di riflettere sulle conseguenze meno immediate, in una prospettiva futura e nondimeno storica, della riforma.
Anche la preparazione all’incontro ha dimostrato una decisa asimmetria tra i due protagonisti: Matteo Renzi puntava a mostrare le contraddizioni del suo interlocutore, essendogli stata messa a disposizione tutta la documentazione necessaria all’uopo; mentre Zagrebelsky un po’ smarrito e sorpreso dagli attacchi non ribatteva nemmeno con le incoerenze più eclatanti del Premier. E si che ce ne sono.
Ma mentre assistevo al dibattito, ciò su cui riflettevo, e che continua a sembrarmi il dato più significativo, era non solo la difficoltà a rappresentare in televisione la complessità delle questioni in gioco, ma il disinteresse, e forse l’incapacità della politica, quella praticata dai politici, a farlo.
Mi sembra di poter affermare, senza tema di smentite, che l’intenzione di Renzi fosse quella di allinearsi al desiderio di semplicità che legittimamente i cittadini, tutti noi, desideriamo per la nostra vita individuale e per quella comune. Esemplare in questo senso lo slogan “non vogliamo meno democrazia ma meno burocrazia”. Una dichiarazione che per quanto strumentale ha senza dubbio una certa efficacia. D’altro canto, se delego qualcuno a rappresentarmi per organizzare e gestire quegli aspetti della mia vita che coincidono almeno in parte con quelli della comunità in cui sono, di certo mi attendo che lo faccia avendo come priorità, oltre che un senso di giustizia e di equità, l’istituzione di regole facilmente seguibili e comprensibili.
Di contro Zagrebelsky si caricava dell’onere di spiegare come queste regole prese singolarmente non possono garantire quella semplificazione auspicata, perché essendo parte di un contesto più ampio possono facilmente subire modificazioni decisive che non escludono una contrarietà agli interessi della stessa comunità. E questo soprattutto perché nella riforma, inevitabilmente collegata alla nuova legge elettorale, gli strumenti di controllo e di bilanciamento dei poteri della maggioranza che governa, qualunque essa sarà, non appaiono sufficienti. Tralasciando aspetti tutt’altro che semplificati come l’articolo 70 sulla funzione legislativa delle due camere, già oggi con la Costituzione vigente si deve riconoscere che l’efficacia di alcuni organi di controllo come la Corte Costituzionale, appaiono piuttosto bassi. Basti pensare che la dichiarazione d’illegittimità sulla legge elettorale nota come Porcellum (Sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale) non ha sortito alcun effetto pratico, dato che il Parlamento è rimasto tranquillamente al proprio posto, addirittura facendosi costituente.
Ma a prescindere dal caso specifico del referendum e dalle opinioni in merito, quello che si deve notare è la difficoltà a riconoscere la natura della complessità dei temi politici, verso i quali la politica, intendendo sempre quella praticata dai politici, attua una ‘riduzione’ semplificatoria e mai un processo realmente ‘risolutivo’.
Tra ‘riduzione’ e ‘risoluzione’ c’è evidentemente uno iato di senso, da cui consegue un’azione politica che pure se circonstanziata alle condizioni del presente non riesce, o meglio non può, corrispondere ai parametri di un contesto generale dotato, appunto, di una complessità che è anche temporale, storica, come dicevo, ancorché proiettata nel tempo a venire.
Siamo senz’altro di fronte ad una delle conseguenze principali della condizione, che in senso generale possiamo definire come ambientale, in cui siamo e che ha nella velocità, nella presunta facilità delle corrispondenze tra cause ed effetti, come nell’intangibilità dei valori individuali preliminari a quelli della collettività, dalla quale procede il consenso al fare attribuito all’individuo capace e forte, quei miti che oggi vengono disinvoltamente spacciati per necessità.
Una condizione che del resto determina effetti anche nella sfera culturale. Di una certa riduzione semplificatoria possiamo di sicuro parlare ad esempio per l’ambito delle arti visive, segnalata da una sempre più rara problematizzazione critico teorica a favore di una prassi curatoriale meramente dimostrativa di ciò che è in atto, anche se, com’è evidente e necessario, in stretta osservanza delle dinamiche del mercato. Per la verità si tratta di un modus ravvisabile prima che nei curatori e nella mediocrità di buona parte della letteratura artistica conseguente, nel lavoro stesso degli artisti, in senso sempre generale ovviamente. Per entrambi, curatori e artisti, i valori discriminanti appaiono infatti sempre più la velocità e soprattutto quella dimostrazione di saper fare che porta seco la valorizzazione assoluta di qualità come le capacità relazionali e gestionali. L’esempio più eclatante è il vestito da manager o da capo, come direbbe Zagrebelsky, che deve indossare il curatore che aspira alla direzione di un museo, ma che vale anche per l’artista che non a caso sempre più spesso si sente a suo agio nei panni del curatore gestore.
Ma torniamo alle problematiche della politica, come si vede non così distanti da quella della cultura che è, a prescindere dalle sue intenzioni più o meno dichiarate, parte di quella nel senso più ampio e autentico del termine.
Proprio a proposito della complessità mi sembra utile ricordare e invitare a considerare le riflessioni in tal senso del filosofo francese Jacques Rancière, contenute nel suo famoso saggio Il disaccordo (Paris, Èdition Galilée, 1995; Roma, Meltemi Editore, 2007). Proprio all’inizio della prefazione Rancière si domanda, e non a caso, se «La filosofia politica esiste?». La risposta è naturalmente positiva. Ma di contro Rancière sottolinea che anche se la politica pratica oggi a differenza del passato, dov’era fortemente contestata nell’ambito del sociale, ha ritrovato i luoghi propri, istituzionali, nei quali deliberare e decidere sul bene comune: «[…] va diffondendosi l’opinione disincantata che c’è poco da deliberare, che le decisioni si impongono da sé, e che il ruolo specifico della politica si traduce quindi soltanto in un adattamento puntuale alle esigenze del mercato mondiale, e nell’equa ripartizione dei profitti e dei costi di tale adattamento. Si annuncia così il ritorno della filosofia politica, mentre contemporaneamente i suoi rappresentanti più accreditati ne dichiarano l’eclissi».
Anche se sull’equa ci sarebbe molto da dire, è l’accettazione dello status quo, del non è possibile fare altro, ad essere dunque individuato come il modus operandi della politica di oggi – e anche appunto della cultura –, e che in fondo è la causa della stessa modalità riduttiva della complessità a precaria semplificazione, naturalmente previo conforto comparativo con il circostante.
Questa è anche la tesi di fondo di Il futuro è nostro. Filosofia dell’azione di Diego Fusaro (Milano, Bompiani, 2014). Un testo poderoso, che ha il pregio di affrontare senza timori e sudditanze molte delle questioni politiche e culturali in gioco.
Da ultimo, ma non certo per importanza, corre l’obbligo di citare e soprattutto d’invitare a ragionare su uno dei lavori più importanti sugli elementi dell’attuale complessità politica, inclusa ovviamente e ancora una volta quella culturale. Mi riferisco alla trilogia del filosofo napoletano Roberto Esposito, docente di filosofia teoretica alla Scuola Normale Superiore, e che nell’ordine è composta di tre saggi: Communitas. Origine e destino della Comunità (Torino, Einaudi, 1998); Immunitas. Protezione e negazione della vita (Torino, Einaudi, 2002); Bíos. Biopolitica e filosofia (Torino, Einaudi, 2004).
In breve, la sua riflessione parte dall’analisi dell’etimologia del termine ‘communitas’ isolandone la radice ‘munus’, il cui significato di dono si differenzia da ‘donum’ per il suo carattere di obbligatorietà che si contrae con l’altro e che presuppone un necessario disobbligarsi: «Ne risulta che communitas è l’insieme di persone unite non da una ‘proprietà’, ma, appunto, da un dovere o da un debito. Non da un ‘più’, ma da un ‘meno’, da una mancanza, da un limite che si configura come un onere, o addirittura una modalità difettiva, per colui che ne è ‘affetto’, a differenza di colui che ne è, invece, ‘esente’ o ‘esentato’. È qui che prende corpo l’ultima, e più caratterizzante, delle coppie oppositive che affianca o subentra alla alternativa pubblico/privato: vale a dire quella che mette a contrasto communitas e immunitas: se communis è colui che è tenuto all’espletamento di un ufficio – o alla elargizione di una grazia – al contrario immunis dicitur qui nullo fungitur officio (P. F., 127.7), e può perciò restare ingratus. Può conservare integra la propria sostanza attraverso una vacatio muneris. Mentre la communitas è vincolata al sacrificio della compensatio, l’immunitas implica il beneficio della dispensatio» (p. XII di “Communitas”).
La citazione è lunga ma necessaria per cominciare a comprendere il senso della condizione della comunità e soprattutto per arrivare a riflettere sul fatto che è l’immunizzazione che agisce per la sua costituzione con quel ‘dover essere’ che si contrappone ad un ‘essere dato una volta per tutte’. In altre parole, l’essere comunità è proprio e paradossalmente conseguenza della mancanza di quel legame comunitario, come in effetti scopriamo ogni volta che un evento tragico interrompe un equilibrio precedente e abbiamo l’esigenza di ricostituirlo attraverso appunto l’immunizzazione. Una condizione, questa dell’immunizzazione, che «si è progressivamente estesa dal settore del diritto a quelli della politica, dell’economia, della cultura fino ad assumere il ruolo di sistema dei sistemi, di paradigma generale della modernità» (p. 60 di “Bíos”).
Roberto Esposito sostiene che questo paradigma della modernità sia quello della globalizzazione, nella quale è l’assenza della vita (bíos) a mancare per una compiuta realizzazione della communitas, e il cui raggiungimento passa appunto per l’immunizzazione, che altro non è che la biopolitica.
Si tratta in altri termini di quel dispositivo di cui parla in più occasioni Michel Foucault (Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2005) e che anche Giorgio Agamben individua come un dispositivo biopolitico (Homo sacer – Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1998) e che infine per Esposito dispone di quell’organicità atta a riportare la vita nella società.
Come si vede ‘risolvere’ la complessità della politica e della cultura attuali, passa dunque necessariamente attraverso la comprensione e il faticoso scioglimento dei nodi preliminari che la caratterizzano, e nient’affatto per una loro ‘riduzione’ alla fenomenologia banalizzata del presente. Per dirla con altre parole, se gli slogan sono efficaci per vendere un prodotto in televisione, o sui media in generale, essi servono davvero a poco per capire la reale natura del prodotto e la sua utilità, quando proprio e intenzionalmente non la nascondono.
Raffaele Gavarro