È evidente che viviamo un tempo in cui tra Politica e Cultura si sono sviluppate diffidenze reciproche. Questo non è un bene tanto per l’una quanto per l’altra. Soprattutto non è un bene per un Paese come il nostro in cui la Cultura, e non solo quella del nostro passato, ha avuto un ruolo decisivo per il suo sviluppo e per la sua identità. Si tratta quindi urgentemente di riallacciare i fili di questo dialogo e di uscire rapidamente dai luoghi comuni creatisi da questa distanza. Se da una parte la Politica ha infatti ridotto la Cultura a una questione organizzativo-turistica, con il mito della bellezza del nostro patrimonio come risorsa da utilizzare di più e meglio; dall’altra la Cultura ha contrapposto un’indifferenza sostanziale alle logiche della Politica, tranne ovviamente quando ha potuto giovarsene in casi singoli.
La figura dell’intellettuale, la sua funzione dialettica, ha lasciato il posto alla figura del consulente e alla sua presunta praticità, utilizzabile per una migliore risoluzione delle problematiche gestionali. Un approccio che ha presieduto ad esempio alle logiche delle recenti riforme del Mibact, della scuola, come a quelle mancate delle Accademie e alla marginalità in cui è sostanzialmente lasciata l’Università e la ricerca in generale.
Ma di contro noi non siamo riusciti, evidentemente, ad essere degli interlocutori credibili, capaci di sostenere argomenti alternativi e convincenti da opporre alle semplificazioni che in questo tempo paiono connaturate alla Politica del nostro Paese.
“Cultura e Politica” si occuperà di questioni nazionali e locali, attraverso riflessioni ma anche dialoghi con politici e altri intellettuali, cercando nei limiti delle nostre possibilità di riconnetterli.
Fenomenologia di un passaggio di testimone politico: dalla sinistra al M5S
Scrive Stefano Fassina all’inizio di una sua recente analisi del voto delle amministrative:
“Il primo dato, a Roma, Torino, Bologna, Napoli e in parte Milano, è l’allargamento della faglia tra gli interessi economici e sociali storicamente rappresentati dalla sinistra e dalle forze progressiste e gli eredi di quelle storie”.
(Fonte) Una lunga riflessione quella fatta da uno dei fondatori di Sinistra Italiana, che procede tra Europa del dopo Brexit, nuove e più sociali affermazioni del liberismo che si sovrappongono alle istanze socialiste (?), crollo del PD e necessità di smarcarsi definitivamente da esso perché la sinistra trovi una propria identità e un proprio spazio. Riconosce al Movimento 5 Stelle, almeno in parte, la capacità di risaldare quella faglia: “Il M5s oggi raccoglie da protagonista la domanda di rappresentanza del popolo delle periferie. Tuttavia, è segnato da ambiguità e da contraddizioni. Declina la sacrosanta richiesta di legalità senza connessione al principio legittimante della giustizia sociale. Nelle sue esperienze di governo, il M5s va sfidato in senso costruttivo, non boicottato. Con il M5s, va costruito un dialogo intelligente senza subalternità o inutili, spregiudicati tatticismi”.
Meglio tardi che mai. Ma Fassina rimane vittima di un linguaggio obsoleto, intellettualoide e soprattutto privo di una capacità di relazionarsi in modo efficace con il presente: “La sinistra neo-umanista del XXI secolo ha come orizzonte il lavoro di cittadinanza e la interdipendente trasformazione ecologica dell’economia. Il trasferimento di reddito a carico della fiscalità generale per chi è in determinate condizioni economiche e partecipa a un percorso di inclusione attiva è strumentale al raggiungimento del lavoro di cittadinanza”. I 5 Stelle rispondono con semplicità ed efficacia chiedendo il reddito di cittadinanza, la riduzione degli stipendi fuori misura dei politici e non solo, l’abolizione di Equitalia, azioni politiche di maggiore controllo sulle banche e sulla finanza a favore dei risparmiatori, una fiscalità più equilibrata a favore dei redditi più bassi, una tutela dei lavoratori di segno opposto a quella determinata dal jobs act, sgravi fiscali alle piccole e medie imprese. Perché il popolo delle periferie, il popolo in generale direi, non dovrebbe scegliere queste ultime affermazioni evidentemente più corrispondenti alla natura dei propri bisogni? Non è questa la domanda principale che dovrebbe porsi la sinistra?
Fino ad oggi si è sempre affermato che il Movimento 5 Stelle avrebbe fatto da argine alle pulsioni più estreme della destra nazionalista, che altrove in Europa sta raccogliendo un largo consenso, assorbendo il malcontento generale e riconducendolo dentro un ambito pienamente democratico, ancorché gravato dall’accusa di populismo (?). La verità appare oggi invece in tutta la sua evidenza, e cioè che i 5 Stelle hanno occupato buona parte del campo della sinistra, sottraendogli spazio politico, ruolo e funzione sociale.
È uno dei fatti politici più rilevanti verificatosi in Occidente dopo la caduta del Muro di Berlino, molto più significativo e decisivo dell’affermazione di movimenti come Podemos in Spagna e Syriza in Grecia, diversamente ma comunque entrambi in continuità con la sinistra storica.
Un fatto talmente evidente e che prima di tutto è percepibile nel linguaggio. I 5 Stelle parlano e si comportano come “cittadini” chiamati ad una temporanea responsabilità istituzionale che è sempre ricondotta alle esigenze della collettività e sottoposta alla verifica di quest’ultima. La sinistra, quello che ne resta dentro e fuori un PD sempre più posizionato in un’area politica mediana, è invece impegnata nel tentativo di rimanere nell’ambito istituzionale cercando di mantenere la continuità con quei soggetti che ne sono parte e che la garantiscono. Per questo il loro ragionare su faglie e popolo delle periferie appare ed è retorico. Il loro linguaggio è evidentemente rivolto in modo rassicurante alle classi dirigenti e risulta incomprensibile ai cittadini comuni, che è sotteso debbano rimanere tali.
Contrariamente a quello che di solito si afferma, il linguaggio della sinistra più che con il suo passato appare oggi del tutto congruente a quello neoliberista che non prevede altre possibilità allo status quo post capitalista: non ci sono alternative e in questa impossibilità è esaurita qualsiasi capacità dialettica e di trasformazione del presente. A differenza dei 5 Stelle, la sinistra parla e agisce in un quadro di realismo a-prospettico, privo cioè di quella possibilità utopica che si ritiene esaurita con la fine delle ideologie; li dove invece i primi hanno preso atto anch’essi di questa conclusione costruendo però una nuova dialettica fattuale fondata sul presente, dichiarando però esplicite prospettive di cambiamento dedotte in modo diretto dalle conseguenze che lo stato delle cose produce sulle persone.
Naturalmente questo approccio, o se preferite metodo, deve essere ancora sottoposto alla prova della storicità, alla verifica cioè del cambiamento di ciò che è in ciò che potrebbe essere. Un riscontro che per le stesse caratteristiche fattuali assunte come statuto dal Movimento non potrà che avvenire nel momento del governo, nello svolgimento diretto della sua azione.
Ma è non meno chiaro che, nonostante le dichiarazioni non sempre lineari di alcuni dei più importanti rappresentanti del Movimento, i fondamentali adottati corrispondano a quelli di un socialismo ancorché geneticamente mutato in conseguenza alle esigenze evolutive imposte dal presente in cui siamo.
Nel nuovo saggio del filosofo tedesco Axel Honneth L’idea di socialismo. Un sogno necessario (Feltrinelli, 2016) questa mutazione è descritta con una certa efficacia. Pur non facendo riferimento a specifiche prassi politiche e rimanendo sul piano della storia delle idee, che è forse il vero limite di questo lavoro, ancorché dichiarato nell’introduzione, Honneth pone due elementi essenziali per il rinnovamento dell’idea socialista e che il filosofo definisce con la formula dello sperimentalismo storico. Il primo elemento consiste nel perseguimento di tentativi verso forme economiche di matrice cooperativista e che vede l’approdo ad un socialismo di mercato da contrapporre al neoliberismo. Ma è soprattutto nel secondo punto, che pone l’accento sulla centralità dell’opinione pubblica e sul modo con cui coinvolgerla nella discussione democratica, che il ragionamento si avvicina alle pratiche fattuali del Movimento 5 Stelle. Riprendendo i ragionamenti di John Dewey e Jürgen Habermas, Honneth sostiene infatti la necessità di garantire una forte democraticità nella formazione della volontà politica. Un processo che vede un passaggio dal proletariato come unico interlocutore del socialismo, al più variegato soggetto rappresentato da tutti i cittadini.
Un approccio che appunto corrisponde in Italia alle pratiche del Movimento 5 Stelle, sia attraverso l’uso di Internet, che nell’azione diretta in quei territori nei quali i cittadini sono chiamati a dichiarare le proprie necessità, a fronte di volontà politiche che incideranno direttamente sulla vita della collettività.
Ci sono naturalmente molti aspetti dell’azione politica del Movimento che appaiono finora poco definiti, probabilmente per quella stessa natura fattuale, direi day by day, che la sta caratterizzando.
Uno tra tutti è ad esempio quello della cultura e della figura dell’intellettuale.
A parte l’utilizzo come testimonial nelle fasi elettorali, quest’ultimo è infatti tenuto a distanza e soprattutto si fatica ad accoglierne la funzione dialettica e critica. Il Movimento pare non riesca (ancora) ad ereditare il ruolo dell’intellettuale dalla tradizione storica della sinistra, con il quale tra l’altro quest’ultima ha dimostrato di aver perso da tempo contatto, dichiarando una certa allergia ai “professori” e alla loro azione critica.
Per il Movimento si tratta di una questione non proprio accessoria, che incide tanto nelle dinamiche elaborative teoriche quanto nello specifico pratico della pianificazione delle politiche in generale e di quelle culturali nello specifico, sulle quali infatti si avverte la mancanza di proposte efficaci e alternative al pari di quelle fatte in altri ambiti. Opporre a questo deficit l’argomento di una secondarietà della cultura in presenza di urgenze cosiddette primarie, sarebbe naturalmente puerile oltre che antistorico. Se c’è una cosa ormai chiara a tutti come causa della decadenza del nostro Paese nell’ultimo trentennio, sia a livello centrale che locale, è che essa è conseguenza della marginalizzazione subita dalla cultura, dalla quale è derivata un’inevitabile perdita d’identità. La cultura è infatti, e com’è noto, un organismo complesso e unitario, che dalle sue affermazioni più alte procede a contaminare e indirizzare quei fenomeni che hanno un più spiccato carattere sociale e di costume, e che rappresentano però nel nostro Paese alcune delle più significative forze economiche. Un sostegno alla ricerca e al rafforzamento delle arti visive, della letteratura, e più in generale dell’editoria, come anche dell’architettura, del teatro, del cinema e della musica, non può ad esempio che avere un’influenza diretta e indiretta su settori come la moda, il design e persino sull’evoluzione dell’arte culinaria, come non di meno sull’artigianato in generale. Ma è anche tutto l’ambito della scuola, della formazione e della ricerca universitaria, come quello delle Accademie, a dover rientrare in modo prioritario nell’azione politica del Movimento.
Quello che ci si augura è che queste mancanze siano al momento solo la conseguenza di una fattualità che non ha ancora incontrato nel procedere quotidiano la necessità di affrontare queste questioni.
La cosa di per sé non è positiva, ma diverrebbe senz’altro tragica se invece corrispondesse al prevalere di un’idea di complementarità della cultura nell’azione politica del Movimento.