Categorie: lavagna

Curatorial Practices | Adrian Parr

di - 8 Giugno 2018
Una rinata attenzione “mainstream” dell’arte contemporanea per le tematiche impegnate si nota anche con la scelta del Turner Prize di affrontare in questa edizione, e nelle successive, le questioni politiche ed umanitarie della nostra attualità. Indubbio il pensiero critico vada stimolato avvicinandosi ai temi scottanti della società, uno di questi è l’ambiente. Ne parlo con la filosofa, docente e critica culturale Adrian Parr specilizzata in filosofia ambientale ed attivismo; da poco nominata decano del College of Architecture, Planning and Public Affairs della Università del Texas.
Potresti introdurci il tuo libro “Birth of a New Earth: The Radical Politics of Environmentalism”?
«Birth Of A New Earth argomenta come il degrado ambientale sia un costo di approvvigionamento esterno della crescita economica, delle democrazie indebolite, della militarizzazione, di una società globale ingiusta scenario dello spettacolo della violenza. A questo proposito, l’ambiente politico diventa la modalità di pensare e di agire nella capacità di penetrare la struttura della violenza globalizzata. Pertanto, ha il potenziale di funzionare come una forza sociale radicalmente trasformativa, che affronta i sistemi oppressivi da una varietà di angolazioni. La mia comprensione della politica non è limitata al regno della politica istituzionale, piuttosto è una politica animata da una forza utopistica volta a realizzare un mondo inclusivo ed equo; un mondo non più determinato dall’assioma del capitale. La competenza ambientalistica deve anche cambiare al fine di realizzare il suo potenziale politico. Per questo motivo evolvo il lavoro ambientalista al di là delle specificità della politica, della protesta, dell’economia verde, della difesa dei diritti degli animali e della conservazione; includendoci l’analisi degli sfollati, le pratiche creative, le zone di guerra, e le iniziative del design di interesse pubblico».

Oliver Ressler, Everything’s coming together while everything’s falling apart: Code Rood, 14 min., 2018, Courtesy the artist

In risposta all’enorme degrado ambientale gli attivisti e i movimenti popolari si sono sollevati per combattere la crisi dei cambiamenti climatici e la continua devastazione della terra. Tuttavia, il prezzo del successo è stato compromesso, spingendo la ricerca verso la messa in discussione della politica ambientale. Attualmente esiste un movimento rivoluzionario che si oppone al sistema? O è di natura riformista, incline a cambiare il sistema dal suo interno?
«Questa è un’eccellente questione che arriva al nucleo dell’argomento principale. Estendendo le richieste presentate in The Wrath of Capital e Hijacking Sustainability, in Birth Of A New Earth mi chiedo: come funziona la politica dell’ambientalismo? A seconda del tuo orientamento politico, la risposta a questa domanda è che si tratti di un movimento rivoluzionario che si oppone al sistema attuale, oppure di un movimento riformista che opera cambiando il sistema dall’interno. Ritengo che questa sia una falsa dicotomia. Il capitale pone i limiti che sono stati fissati al servizio dell’accumulazione, un approccio puramente riformista sarà sempre suscettibile di appropriazione ed usato per far progredire il sistema stesso. Inoltre la politica meramente radicale subisce un altro tipo di cooptazione, attraverso l’abuso delle leggi sull’antiterrorismo. La società esposta al pericolo della criminalizzazione, esercita un meccanismo attraverso il quale lo status quo viene rafforzato a discapito della rappresentazione. In risposta, localizzo il lavoro di emancipazione della politica ambientale con delle solide basi proponendo l’uso dell’immaginazione collettiva. La solidarietà di natura diversa, spiego, non solo riunisce diversi collegi politici, ma fonda le strategie e i paradigmi opposti, lavorando dall’interno e all’esterno del sistema esistente».
L’inquadramento del degrado climatico è una forma di violenza e potenzialmente un crimine contro l’umanità del tardo capitalismo. C’è una parte colpevole che può essere ritenuta responsabile di questo crimine?
«Il capitalismo non è una persona. Da un punto di vista filosofico esiste un certo agente che il capitalismo esercita che può essere articolato esaminandolo come un sistema che collega diverse materialità e si muove attivando una varietà di forze economiche, di poteri politici, di energie sociali e di orientamenti culturali. In altre parole, il processo di accumulazione del capitale non è passivo. La sfida politica è di rendere la sua violenza inerte e democratiche le gerarchie delle organizzazioni sociali a cui è subordinato. In parole povere, dobbiamo smettere di rendere il capitale un feticcio. Allo stesso tempo, il capitalismo non può essere ritenuto responsabile allo stesso modo di un soggetto umano. In effetti il suo potere deriva da quanto gli esseri umani investono nel sistema di accumulazione del capitale. Gli esseri umani producono e riproducono il capitale, rafforzandolo e legittimandolo nel decorso dei tempi. A tale riguardo, la specie umana è indiscutibilmente responsabile delle violenze perpetrate dai cambiamenti climatici e dal degrado ambientale. Detto ciò, è inaffidabile appiattire il piano di responsabilità della colpa umana all’interno delle norme. Per ragioni che penso ovvie, un bambino, i manifestanti di 350.org, o una donna della Tanzania che vive dell’agricoltura di sussistenza certamente non possono essere ritenute responsabili allo stesso modo del CEO di Exxon o di BP.
La sfida si regge da come le generazioni presenti potranno rispondere efficacemente a queste asimmetrie di colpevolezza. Lavorando all’interno del sistema possiamo rendere più equa la nostra organizzazione sociale e cambiare le politiche ambientali ed economiche fermando gli inquinatori e il furto delle risorse. Possiamo usare dei meccanismi legali per bloccare coloro che stanno prendendo decisioni ambientali irresponsabili mettendo in pericolo il futuro nello stesso modo nel quale Our Children’s Trust sta facendo causa all’amministrazione Trump. Dobbiamo anche letteralmente uscire dal sistema, anche fisicamente se necessario, per fermare ulteriori ingiustizie ambientali; come stanno facendo LaDonna Brave Bull Allard e gli altri manifestanti contro il completamento della Dakota Access Pipeline. Inoltre, dobbiamo esercitare la nostra immaginazione emancipatrice per sperimentare ciò che la vita senza il capitalismo può trasformare, resistere a un tale esercizio può arrestare gli scenari apocalittici che collegano inevitabilmente la fine del capitalismo alla fine del mondo».

Oliver Ressler, Everything’s coming together while everything’s falling apart: Code Rood, 14 min., 2018, Courtesy the artist

Le preoccupazioni relative alla crisi ambientale sono sempre più spesso oggetto di discussioni del rischio di propagarsi della violenza, della guerra o in Medio Oriente o in altri fronti. Perché c’è una manipolazione delle aree geografiche?
«È vero che più siamo in tensione per la disponibilità delle risorse naturali, più queste ultime aumentano di valore. In realtà questo è un principio economico fondamentale allertato da Karl Marx relativo allo scambio, al prezzo e alla speculazione. Oggi ciò che è diverso risiede dal fatto che alcune risorse, come l’acqua, portano un valore aggiunto – un valore esistenziale. Un valore esistenziale dovrebbe essere inestimabile, ma in un sistema capitalista questo ultimo diventa solo più prezioso. Con il capitale tutto entra nel sistema di scambio anche la vita stessa, come ci ha mostrato Michel Foucault con il suo concetto di biopolitica e più recentemente Brad Evans nella sua estesa ricerca sulla violenza nella vita contemporanea. Una volta dentro il sistema di scambio la competizione e i desideri determinano come viene prodotto il valore. Tuttavia, cosa succede quando la vita stessa diventa un mezzo di produzione? Tutti noi siamo complici del capitalismo globale, alcuni più di altri naturalmente. È incredibilmente fuorviante collegare alcune aree geografiche con la guerra alle risorse naturali, senza riconoscere che le attività umane in generale, e l’industria dei combustibili fossili, più specificamente, stanno compiendo nefandezze su base giornaliera. Esaminando l’incoerenza coloro che sono chiamati a compiere la guerra all’ambiente sono generalmente popolazioni non occidentali e non cristiane. Questa è senza dubbio una inclinazione razzista. Altrettanto preoccupante è il legame razziale tra la guerra e le risorse naturali, che consente di legittimare la continua violenza condotta su quelle popolazioni. Nella mia mente si tratta di un’attività di rimozione che ci consente di evitare il problema più difficile causato dalla nostra stessa complicità, o come Santiago Zabala potrebbe dire, nasconde la vera emergenza della specie che stiamo affrontando è di introdurre un falso senso di emergenza. Qui risiede la vera violenza che dobbiamo affrontare».
Camilla Boemio
@https://twitter.com/camillaboemio

Scrittrice d'arte, curatrice e teorica la cui pratica indaga l'estetica contemporanea; nel 2013 è stata curatrice associata di Portable Nation, il padiglione delle Maldive alla 55.° Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia, dal titolo Il Palazzo Enciclopedico; nel 2016 è stata curatrice di Diminished Capacity, il primo padiglione della Nigeria alla XV Mostra Internazionale di Architettura, con il titolo Reporting from the Front; nello stesso anno ha partecipato a The Social (4th International Association for Visual Culture Biennial Conference) alla Boston University. Nel 2017, ha curato Delivering Obsolescence: Art Bank, Data Bank, Food Bank, un Progetto Speciale della 5th Odessa Biennale of Contemporary Art. E’ membro della AICA (International Association of Arts Critics). Boemio ha scritto e curato libri; ha contribuito con saggi e recensioni a varie pubblicazioni internazionali, scrive regolarmente per le riviste specializzate, e i siti web; ha tenuto parte a simposi, dibattiti e conferenze in musei e festival internazionali.

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