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02
settembre 2014
Focus su/il Museo
lavagna
Non si tratta di avere una rampa in più. L’accessibilità al museo è cosa ben più complessa. Un concorso del MiBACT rilancia la questione e un museo sardo lo vince. Ma preziose indicazioni arrivano anche dalla GNAM di Roma. Con il contributo degli artisti
di Eleonora Minna
di Eleonora Minna
Una selezione di 17 musei italiani e una call pubblica per votare un progetto di accessibilità. È questa la proposta di “Cultura senza ostacoli”, l’iniziativa lanciata nelle ultime settimane dal MiBACT e vinta dal Museo Archeologico Nazionale di Cagliari con quasi 19mila voti: un successo, se si considera che tra le eccellenze selezionate dalla Direzione Generale figuravano teste di serie come il Palazzo Barberini di Roma o il Museo Archeologico di Napoli. Il museo cagliaritano non è poi così piccolo: fa parte infatti di un complesso che comprende più realtà, nato negli anni ’60 dalla riqualificazione di un’ex fortezza e conosciuto oggi come Cittadella dei Musei. Come spiega la sua direttrice Donatella Mureddu, «grazie a questa opportunità avremo l’occasione di mettere in rete tutti i musei del complesso in un unico progetto di fruibilità». Nelle intenzioni del Ministero dunque, l’esperimento che verrà fatto a Cagliari dovrà condurre a una soluzione museale “tipo”, un prototipo potenzialmente replicabile in altre realtà.
“Cultura senza ostacoli” cerca di evitare, già nella sua sintassi, quel lessico formale e stantio fin troppo noto: ascensori per disabili, rampe per disabili, bagni per disabili. Chi non si è mai imbattuto in questo repertorio di fraseologie tipiche? Diversamente parlare di accessibilità sostituisce quel senso di costrizione sottinteso a “norme-per-risolvere-un-problema”, con linee guida per spazi sicuri e confortevoli per chiunque. Concetti del resto già presenti in un documento elaborato dal MiBACT, le Linee guida per il superamento delle barriere architettoniche nei luoghi di interesse culturale, che sposa a pieno la tesi dell’universal design (nonostante il titolo che cede ancora al rischio di riassumere il problema con soluzioni per meri ostacoli fisici, le cosiddette “barriere”).
Qual è quindi il dogma del cosiddetto “design for all”? Ideare spazi e ambienti utilizzabili da un ampio numero di persone, a prescindere dalla loro età o capacità psicofisica. Parlare di utenza ampliata, dunque, riassume questa volontà di creare un’osmosi tra necessità diverse, invece di itinerari dedicati. «È quello che cercheremo di evitare nei prossimi mesi -prosegue Donatella Mureddu – favorire un percorso in autonomia per persone con difficoltà visive, uditive o motorie non vuol dire creare circuiti esclusivi, con il rischio di abbattere alcune barriere e crearne nuove».
Una situazione che la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma conosce molto bene e che studia da qualche anno. L’occasione viene da lontano, da quando nel 2006 la MetLife Foundation di New York ha lanciato il progetto “Meet Me at MoMA”, un percorso di visita per persone affette da Alzheimer. L’ente americano non solo ha finanziato l’iniziativa, ma ha creato le condizioni per esportarla altrove, con giornate di formazione che, a partire dal 2010, hanno portato alla creazione di un network che oggi conta oltre 100 musei nel mondo. Il calendario di visite della Gnam va avanti già da qualche anno, ed è aperto ai pazienti e ai loro accompagnatori. Ma c’è una particolarità tutta italiana nell’adesione al progetto: «Sin dall’inizio abbiamo voluto programmare le visite in orario di apertura, anzi puntando spesso su occasioni di particolare affollamento. E questo è stato il nostro punto di forza», spiega Martina De Luca, responsabile dei servizi educativi della Galleria. «Questa attività diventa importante per chi la vive se è percepita come un qualcosa di normale, che si mescola con la quotidianità del mondo esterno. Non a caso le sorprese più belle di questi anni sono stati incontri avvenuti con studenti, tanto è vero che il prossimo anno vorremmo intensificare l’attività con le scuole per la particolare atmosfera che viene a crearsi: educativa per gli studenti e fondamentale, dal punto di vista emotivo, per le persone malate».
Traspare dunque l’idea della fruizione del museo non può essere considerata una somma di interventi per diverse tipologie di pubblico, ma deve rientrare in una concezione globale. Il punto di forza del progetto “La memoria del bello” è stato quello di aver fatto maturare una nuova e diversa consapevolezza nei confronti dell’accessibilità culturale, a partire dagli stessi addetti ai lavori. Chi gestisce le visite non viene dall’esterno, ma è lo stesso personale di sala: non più custodi di vecchia generazione, ma veri e propri assistenti alla fruizione.
E gli artisti? Anche loro hanno avuto la loro parte. Valerio Rocco Orlando e Maria Dompè sono stati coinvolti nel progetto, portandolo a un livello ancora più alto: non più e non solo arte moderna, arte figurativa, ma ora entra in campo la contemporaneità più stretta (si, la stessa definita da più parti ostica, concettosa e lontana). Questo è stato possibile grazie a quella sensibilità nella lettura dell’opera che solo gli artisti hanno, come riporta Martina De Luca, «tanto che uno degli incontri è sfociato inaspettatamente in un profondo discorso sulla creatività dell’artista, sul tempo e la memoria», confermando il museo nella sua funzione, come spazio che contiene e catalizza idee. Altre idee sulla “normalità”?