Franco Noero è considerato uno dei pochi galleristi italiani importante a livello internazionale. Che dalla sua Torino parla con il mondo. Eccone il ritratto, tra fiere e collezionismo, progetti vecchi e nuovi. E con le anticipazioni per il 2015.
Partiamo dalla fine: l’ultima fiera a cui è partecipato è stata Art Basel Miami. Come è andata?
«Bene, molto bene. Art Basel Miami è ormai una fiera molto solida e sempre più interessante, la fiera delle Americhe potremmo dire. È diventata un punto di riferimento non solo per gli Stati Uniti, ma per tutta l’America stessa, momento di incontro fra eccellenze provenienti da tutto il mondo».
La sua galleria è presente nella lista degli espositori di diverse fiere internazionali. Com’è cambiato il collezionismo in questi ultimi anni?
«È assolutamente molto cambiato: le fiere di riferimento aumentano a vista d’occhio, quindi le occasioni di incontro si moltiplicano durante l’anno. Assistiamo ad una sorta di inversione di tendenza: se prima esisteva soprattutto un pubblico di galleria, oggi quel pubblico esiste ancora ma si sta svuotando, per lasciare il posto al pubblico della fiera. Le stesse persone che frequentano la galleria oggi si trovano più spesso a concludere i propri affari presso lo stand fieristico. Potrebbe sembrare un paradosso dato che il momento di incontro con il collezionista – o più in generale col pubblico – in galleria, momento molto importante. Oggi non è più un momento esclusivo».
Quindi le fiere sono importanti. Quali considera interessanti?
«Sicuramente sono importanti, soprattutto perché presentano una fetta di collezionismo specifica. In questo momento, ad esempio, sono molto interessanti le fiere regionali, non dico quelle di una piccola città, ma quelle che fanno riferimento ad una specifica area geografica. Penso, ad esempio, alle fiere di Dubai, dove è presente tutta una fetta del collezionismo del Medio Oriente; il Messico raccoglie un collezionismo molto colto, proveniente anche da tutti i Paesi limitrofi; ancora, in Brasile a SP Arte si incontrano collezionisti molto interessanti».
Torino è ancora un polo d’attrazione per gli addetti ai lavori dell’arte contemporanea? Le manca qualcosa per diventare ancora più internazionale?
«Sicuramente il vuoto istituzionale attuale, l’incertezza del non sapere chi arriverà sono fattori problematici che devono essere tenuti sotto controllo e che devono essere risolti quanto prima. Anche il budget a disposizione non è più lo stesso di qualche anno fa, ma bisogna essere in grado di affrontare tutto con slancio e fiducia. Credo che a Torino non manchi nulla, anzi può sempre sorprenderci. Basti pensare all’ultima edizione di Artissima che è stata assolutamente speciale, molto attesa e che si è dimostrata essere ancora una fiera di grande qualità, in particolar modo per quanto riguarda il programma dedicato ai collezionisti. Il pubblico si è dimostrato interessato non solo alla fiera in quanto tale, ma anche a tutto quello che stava succedendo in città ed è arrivato da tanti Paesi del mondo, anche molto lontani, trovando una forte accoglienza. Credo che Torino sia una città ricca di possibilità che devono essere sfruttate bene».
In concomitanza con l’ultima edizione di Artissima nella sua galleria ha preso il via la prima mostra italiana che vede protagonista il brasiliano Tunga. Com’è stato lavorare con lui?
«Il rapporto professionale con Tunga è cominciato circa tre anni e mezzo fa e abbiamo molto lavorato per realizzare questa mostra, la prima personale che ha realizzato finora in Italia. È molto noto in Francia, è stato fra i primi artisti contemporanei ad esporre al Louvre nel 2004. Lavorare con lui è stato meraviglioso e ha prodotto una mostra anche molto generosa in termini di opere, che è anche andata molto bene. Sicuramente porteremo avanti altri progetti con lui in futuro, lavorando sinergicamente anche con le altre gallerie che lo rappresentano nel mondo».
In un’intervista, parlando del suo spazio espositivo alla cosiddetta ‘Fetta di Polenta’ parlava di ‘spazi impossibili’. Quali sono i limiti – se ce ne sono – dell’architettura o spazio della galleria a via Mottalciata dove si è trasferito nel 2013, al confine con Barriera, definito come ‘architettura spontanea’?
«Lo spazio di Fetta di Polenta era molto speciale e fin dall’inizio, conoscendone i limiti, sapevamo che avrebbe avuto una fine. È vero, ho parlato di ‘spazi impossibili’, ma se considera che siamo riusciti a presentare 18 mostre in cinque anni si evince che si trattava di uno spazio in cui era possibile realizzare dei progetti. Quando ci si trova davanti a dei limiti strutturali, soprattutto per un artista si arriva spesso ad una risposta eccezionale: quello che potrebbe sembrare un ostacolo diventa una grande potenzialità. Posso dire che quello spazio era un laboratorio di idee, l’attuale sede della galleria è una grande palestra: uno spazio bianco, inondato di luce, che offre grandi possibilità. Da questo punto di vista Torino è una città che permette di avere degli spazi di tali dimensioni. Anche l’area in cui ci troviamo è interessante, è una zona che sta crescendo molto e che si sta aprendo all’arte contemporanea».
In passato ha provato anche l’apertura di uno spazio a Roma assieme a Gavin Brown e Toby Webster. Oggi se dovesse scegliere una città quale sarebbe? Avrebbe in mente due persone con cui condividere l’esperienza?
«L’esperienza romana è stata molto positiva, è durata tre anni e mezzo e l’ho condivisa con persone che ancora oggi sono miei ottimi amici. Forse è nata con poca consapevolezza, non avevamo un budget, non avevamo una programmazione precisa in mente, ma è stata il frutto di un progetto spontaneo e bellissimo. Peraltro il gallerista newyorkese Gavin Brown sta per aprire un nuovo spazio e a lui vanno i miei migliori auguri. Ho pensato molto spesso a quale città sceglierei per aprire un nuovo spazio, ma ancora non sono arrivato a darmi una risposta. Altre persone con cui condividere una nuova esperienza? Al momento non saprei».
Prossimi progetti per la galleria?
«Dopo Tunga ospiteremo Pablo Bronstein, per la terza volta in mostra nella nostra galleria e subito dopo Lara Favaretto, che presenteremo per la quarta volta. Continueremo la programmazione con un progetto con Francesco Vezzoli. A settembre avremo Andrew Ddson e concluderemo l’anno a novembre con Darren Bader, che aveva concluso la nostra programmazione alla Fetta di Polenta. Dunque tutti progetti molto importanti sia per gli artisti che per la galleria stessa. Inoltre, lo spazio interrato che abbiamo affidato a Cripta 747 negli ultimi mesi verrà affidato prima ad un artista che lo occuperà per un anno; in un secondo tempo, dopo una realtà no-profit e un artista per un anno intero, decideremo a chi dedicarlo».