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Ancora animali a Icone per caso. Dopo l’allegoria dell’Universo sub specie di medusa fluttuante, è un nido di serpi a rappresentare qualcosa di affatto singolare. Questo ameno disegnetto, tratteggiato con una biro sul cartoncino di un blocco di ricevute, mi è stato regalato dal suo autore che non fa l’artista, ma il maestro di braci. Trattasi di Massimo Valentini della Trattoria Toscana di Capalbio, il quale è uso disegnare, nei ritagli di tempo e sulla prima superficie utile, soggetti inerenti al suo ambiente abituale.
A prima vista l’intreccio di rettili non racconta granché. Ma una volta scoperto il retroterra nel quale ha visto la luce, eccolo illuminarsi di sensi inattesi. Il nucleo famigliare di Massimo, infatti, per gran parte della sua vita è stato composto da cinque persone, la compianta mamma Rosanna essendo scomparsa solo da qualche anno. Tante quante sono le serpi, dunque. Se l’irriverente metafora sia autoindotta, o piuttosto figlia dello sguardo impertinente di chi scrive, è difficile stabilirlo. Quel che è certo, la corrispondenza numerica, unita al fatto che il retro del disegno reca i nomi dei tre fratelli (ma non dei genitori), imbriglia l’interpretazione, cosicché lecito è ipotizzare che si tratti di un inconsueto “ritratto di famiglia”.
Difficile distinguere, tuttavia, i cinque membri di cui è composta ancora e sempre la famiglia Valentini. Forse la coppia genitoriale è ravvisabile nelle uniche due serpi rivolte a destra, tra cui spicca il padre. O forse i genitori sono le uniche due serpi munite di sonagli e la madre, più minuta, è curiosamente bicaudata. Se così fosse, l’autore si immedesimerebbe in quell’edipico serpentello che si frappone tra i genitori, mentre il primo e l’ultimogenito andrebbero a occupare la posizione di ultime vipere del mazzo.
L’unione o una lotta intestina attanaglia questa famiglia di stampo patriarcale? Nonostante l’apparente nido di serpi, un saldo sentimento d’appartenenza e di cameratismo cementa i Valentini. Tanto per cominciare, sull’esempio del capofamiglia i figli sono tutti e tre degli esperti cacciatori, ma la preda totemica non è la vipera, pure da quelle parti assai temuta, bensì il cinghiale, la cui effigie in ferro battuto cinge l’ingresso della trattoria di famiglia non appena varcate le antiche mura capalbiesi. Quindi, tutti e tre usano spogliarsi della mimetica venatoria per indossare i panni ora del cuoco, ora dell’ospite di sala. Ricordo ancora quando da piccolo, assaporando il “suino di macchia” o il “fagiano alla cacciatora”, dovevo epurare i miei appetitosi bocconi dai pallettoni di piombo (un privilegio ormai inaccessibile). Mamma Rosanna, dal canto suo, fece in tempo a tramandare ai posteri il segreto dei suoi tortelli maremmani con ripieno di ricotta di Manciano e profumo di cannella, che da soli valgono una visita a Capalbio.
Ritratto di famiglia, 2015. Autore: Massimo Valentini
Una preziosa lezione è dunque quella di Massimo, tanto che il suo raro disegnetto ha trovato posto stabile sulla mia libreria, nel reparto etnografico. Quale? La stessa dell’etnografo: le rare volte che si ha ancora la fortuna d’imbattersi in una forma d’arte radicata in un contesto antropologico stabile e dalla forte identità locale, occorre smettere i panni del critico globale e prestarle la dovuta attenzione. Si dischiuderà un mondo di vite e tradizioni che resistono a quell’omologazione e sradicamento che l’arte contemporanea va raccontando in loro vece.
Roberto Ago