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“La verità non ha cuore” era scritto in una delle carte di Luigi Billi, esposte nella sua stanza, in occasione del primo progetto di “Arte e Altro” che battezzava il ritorno di Elisabetta Giovannoni sulla scena dell’arte di Roma. Succedeva quasi due anni fa, il 1 febbraio 2014.
Solo due anni dopo, nessuno avrebbe mai pensato, me per prima, che una cruda e fredda verità ci avrebbe investito con una notizia molto difficile da credere vera perché del tutto inattesa: la prematura scomparsa dell’amico Luigi.
Ed ecco che il ricordo si mette in moto, una sorta di moto perpetuo, che cerca di rimettere in fila i momenti di riflessione e confronto sui nostri reciproci lavori, di ironie, di gioco e di ridimensionamento, o solo, semplicemente, di incontro.
I ricordi erano per lui molto importanti, come lui stesso diceva, erano ciò che costituivano il legame tra i suoi manufatti artistici.
Molti stentavano a trovare filo d’Arianna della sua poetica, perché era spirito libero e anche un po’ anarchico.
Si permetteva il lusso di conservare sguardi e gesti aperti e di spaziare tra fotografia, plastificazioni, cerature, acrilici, accartocciamenti e successive stirature, fino ad arrivare alla scrittura, ai disegni e ai segni.
Questo suo operare, ne era certo, creava una evidente incertezza tra coloro che amano riconoscere lo sguardo, o il gesto: la riconoscibilità rincuora il mercato, diceva, e come non condividerlo!
Ricordo chiacchiere in libertà su come la richiesta “sociale”, spesso domandata all’artista, fosse contraddittoria: da un lato in tale richiesta esiste il compiacimento per una libertà senza barriere, e il mandato ad usare la creatività più fantasiosa; dall’altro la necessità di rassicurazione (devi essere riconoscibile, assoluto: tu sei questo, fai questo!).
Billi, come spesso amava chiamarsi anche in prima persona, usava soprattutto la fotografia. Era attratto dalla sua forte valenza democratica, che non ha paragoni in pittura, rendendola un mezzo popolare, ad ampio spettro di utilizzo. Forse anche per questo si sentiva libero di dipingerci sopra, di maltrattarla, spiegazzandola, accartocciandola per poi riaprirla, ricomporla secondo un gesto, anche molto ironico, che rimanda a lontane lezioni duchampiane. Era mosso dalla necessità di esprimere un doppio sentimento che naviga tra il rifiuto (il gesto di sciupare) ed il recupero (il gesto di salvare).
Inevitabilmente, i fotografi professionisti lo considerano un dilettante e i pittori un fotografo. Lui ne era consapevole, ma non se curava molto perché il suo lavoro artistico aveva più a che fare con sé stesso, con la sua vita, interiore ed inconscia, piuttosto che con l’esterno, con la vita degli altri. Spirito libero, non cercava di rassicurarsi tramite definizioni condivise, piuttosto aveva l’urgenza di materializzare, con il minor numero di filtri, un’idea, un’emozione, una volontà artistica. E non provava particolari emozioni a lavoro finito e consegnato alla collettività, ma era il momento della concezione, del concepimento, a creargli il cortocircuito: l’intravedere intuitivamente un percorso, un sentiero, che lo avrebbe traghettato verso un mondo sconosciuto ed ignoto.
Patrizia Bonanzinga
8 febbraio 2016