Categorie: lavagna

In risposta a Bartolomeo Pietromarchi | di Giovanna Dalla Chiesa |

di - 14 Dicembre 2012
Caro Bartolomeo,

se rispondo solo adesso alla tua lettera dipende dal fatto che dal giorno 28 novembre, data della vostra apertura, sono stata, in effetti, assente da Roma. Lo faccio, dunque, ora.

Ti sei detto sorpreso, ma confesso che ha sorpreso anche me la reazione che la mia lettera ha suscitato. Non ero a caccia di “polemiche”, ma di spunti per favorire un dialogo e un civile confronto. Quanto è avvenuto, però, è anche il segno che questa città ha un sacrosanto desiderio di partecipare a quella che è la sua storia, variegata e complessa. Una storia che a quella fatta nelle gallerie e nelle collezioni, unisce quella di tipo “narrativo” che si è sempre svolta anche nei caffè, come in un naturale salotto letterario. E letterati e poeti sono in genere testimoni che si lasciano guidare più da ciò che avviene sotto la superficie del mondo che sopra, cioè da dove si costituisce il tessuto, denso e intrecciato, che chiamiamo cultura. Roma è ancora in gran parte così, nonostante l’avvento di internet, un fitto intreccio di relazioni che spiegano poi l’affiorare di singoli disegni, tracciati e immagini alla luce del giorno e nella scena del mondo.

Temo, in sostanza, che se come affermi, si tratta di “un’esposizione pensata per essere uno strumento di ricerca e di approfondimento, l’inizio di un percorso che avrà altre tappe, con nuovi focus, nuove opere in mostra, incontri, workshop, dibattiti ecc.” il progetto non sia stato illustrato con sufficiente chiarezza da rendere plausibili le parole scritte. È molto bella, infatti, l’idea di un Atlante visivo capace di accorpare quarant’anni di storia. Ma impossibile da realizzare. E, infatti, lo definisci “ipotetico”. Quello che ne risulta così, rivela subito lacune e lacerazioni, nonostante alcuni pezzi particolarmente ben scelti e pressoché inediti di cui ti dò atto.

Come fare allora per rendere credibile questa impresa, giustamente ambiziosa, trattandosi di una città come Roma? Mi permetto di dare qualche suggerimento.

A me sembra che la soluzione abbia due presupposti: il primo è quello che attiene a un grande archivio visivo in cui comincino a confluire oltre alle opere, documenti di tutti i tipi, fotografici e bibliografici relativi ai movimenti e alle singole autorevoli presenze in questa città. Questa parte riguarda lo spazio (il documento, l’oggetto, il dipinto hanno tre dimensioni) che ha bisogno di confini, limiti cronologici, tagli e spaccati, dove le opere messe in mostra possano dialogare con la documentazione, assumendo concretezza visiva.

Il secondo è quello della “narrazione”, della storia o racconto che passa attraverso le parole dei protagonisti. Naturalmente prima che sia troppo tardi. Questa parte concerne il tempo. È attraverso lo strumento della registrazione video che le parole dei vivi possono portare a mano a mano il visitatore dal piano materiale a quello immateriale della conoscenza, immergendolo nel tessuto della memoria, di cui sono parte volti, parole, gesti e figure. Qui si dovrebbe anche “investire”, per far posto non tanto alla filosofia e al metodo di lavoro degli artisti, quanto al clima, alle idee e alle intenzioni che circolavano nella città quando sono nate le scelte dei singoli o dei gruppi – e senza un filtro dettato esclusivamente dalla critica che servì, semmai, a indirizzarne la strategia – ma direttamente dalla bocca degli artisti che dall’humus originario di questa città hanno attinto la forza anche di cambiarne la fisionomia, le dinamiche, i comportamenti. Il Museo di una città è infatti il luogo dove spazio e tempo convergono sino a ricongiungersi perfettamente e a potersi riconoscere nella sua storia.

Siamo nel terzo millennio, tutti avvertiamo che ai cambiamenti epocali dobbiamo dare nuovi sbocchi e orientamenti, ma possiamo anche dire che senza un’interpretazione del passato, non faremmo troppa strada. Oggi sicuramente, abbiamo uno sguardo più ampio degli eventi che hanno determinato la storia di questo paese e Roma ne è sempre stata parte essenziale: la sua storia necessita di un’appropriata e non frettolosa rilettura, che non andrebbe lasciata solo ai tanti artisti stranieri che ne hanno accolto lo stimolo e che la reinterpretano – come il cherokee Duran – ma spinta avanti attraverso il dialogo che i suoi artisti sono senz’altro in grado di stabilire con il mondo, come esso, da sempre, lo ha stabilito con loro. E questo, anche attraverso una maggiore pratica di scambio e reciproca ospitalità.

Al cospetto dell’attualità, dunque, per chi debba ancora formarsi, il cammino della storia deve andare di pari passo con il presente, non solo aggiungendo, sostituendo e, eventualmente, integrando opere, personalità o documenti – come il progetto indicava – ma interpretando la loro funzione e, dunque, possibilmente, rintracciandone il significato.

Diciamo che quel “grande laboratorio di ricerca” aperto però “al confronto e alla discussione”, pur volendo difendere “una scelta storico-critica” – secondo le tue parole – ha avuto un avvio “chiassoso”. Ma non inutile, penso.

Sta a te, ora valutare, dopo aver tastato il polso della città, come fare in modo che l’iniziale polemica si traduca nella collaborazione più stretta dei diretti interessati, per dare concretezza a un vasto progetto che dai “muri” del museo, ti auguro, possa scendere finalmente in terra, sostenendo Roma in una crescita di consapevolezza che proprio in questi anni di crisi, possa essere letta come svolta e nuovo inizio.

Ricevi il mio saluto più cordiale.

Giovanna dalla Chiesa

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