Cantieri Aperti è un festival sui linguaggi contemporanei ideato dal gruppo Semi Cattivi per Borgo del Ponte, un quartiere storico della città di Massa. A partire dall’edizione presente il festival ha deciso di avvalersi di un comitato curatoriale, composto da me, Carolina Gestri, Alessandra Franetovich e Gabriele Tosi per coordinare la sezione dedicata all’arte contemporanea. Le domande che seguono, rivolte agli altri membri del comitato curatoriale, non intendono creare un resoconto sull’ultima edizione di Cantieri Aperti ma piuttosto ad aprire una serie di domande in grado di sottolineare limiti e positività nel proporre esperienze estetiche in contesti non canonici, a partire da tematiche che, in maniera informale o nella pratica stessa, sono state in qualche modo parte del festival.
Dopo aver già collaborato con Cantieri Aperti nelle passate edizioni, quest’anno hai curato la residenza d’artista invitando Stefano Serretta. Come spesso succede nei programmi di residenza, l’artista non sa mai bene come definire ciò che va a presentare nella restituzione finale del percorso. La stessa definizione largamente impiegata di restituzione finale sottintende un qualche tipo di tributo che l’artista rende al territorio che lo ha ospitato, ma non implica nessuna necessità espositiva. In generale si può parlare di opere o il troppo poco tempo, non permettendo di sedimentare i lavori, nega lo statuto di opera?
Alessandra Franetovich: «Cantieri Aperti propone da tre anni una residenza d’artista che si svolge in una finestra temporale stretta, circa una settimana, e ciò può comportare un grande limite per l’artista cui viene chiesto di entrare in contatto con una realtà locale, e nel breve tempo di formalizzare un’idea in un formato non stabilito. D’altra parte a me non interessava portare l’artista alla produzione bensì creare un dialogo tra le parti, mettendo in connessione l’ambiente e la popolazione del quartiere con l’artista. Quando ho invitato Stefano Serretta a svolgere la residenza, gli ho fatto presente che nessuno si aspettava da lui un’opera, ma neppure la creazione di un oggetto. A conclusione del progetto di residenza Serretta ha presentato cinque interventi in forma di oggetti ma non “opere”, come parte di un percorso di restituzione. I cinque oggetti comprendono l’insegna di un barbiere basata sull’immagine di un mascherone marmoreo, un poster che riproduce, rendendola leggibile, un’iscrizione marmorea collocata a sei metri d’altezza, la scritta “QUANDO?” affissa sulla parete di una sala in cui un gruppo di ragazzi s’incontrano per tenere riunioni politiche, all’ombra di grandi figure della storia della Sinistra. Assieme a questa, una conchiglia di mare ridipinta, a creare una connessione con un’antica fontana cittadina, e un tavolo in creta forgiato da un momento di collettività vissuto in un bar assieme ad alcuni abitanti del quartiere. Il termine “restituzione” secondo me rispecchia bene questo accordo tra le parti, perché non indica né una forma né uno statuto bensì l’atto di presentare un incontro. Sullo statuto di opera si potrebbe dire molto visto che buona parte della produzione artistica tra XX e XXI secolo si è mossa tra la rivendicazione dell’autonomia dell’arte e la sua definizione, basti pensare al terreno su cui aveva già potuto svilupparsi l’arte concettuale e il concettualismo che, introducendo il principio della smaterializzazione dell’opera, rappresentano un passaggio fondamentale per giungere ai concetti di processualità e formalizzazione nell’arte, che sono ancora alla base della produzione più recente. Participatory art, community based art, relational art sono solo alcuni dei numerosi neologismi inventati nel corso degli ultimi anni per descrivere un fenomeno sempre più diffuso quale quello della condivisione della produzione artistica con un pubblico sempre più coinvolto, già teorizzato e storicamente contestualizzato da Claire Bishop nella formula del Social turn. Quello però che mi interessa maggiormente è ipotizzare una possibile fase successiva che possa andare oltre al concetto di materializzazione del sociale, concetto che trovo estremamente affascinante soprattutto se osservato in parallelo alla materializzazione del digitale, ossia una fase in cui ci si apre all’idea di una produzione che, senza definirsi relazionale, fondi il suo lavoro sul riconoscimento di una preesistente interazione con diversi contesti, inglobando quindi passato e futuro in questo dialogo. Forse, più che un movimento in avanti, è un tuffo nel ripescare dal passato ciò che abbiamo sempre avuto sotto i nostri occhi, ma che si presenta a noi in formule variate, da qui l’idea che la specificità dovrebbe essere immessa in un concetto di temporalità alineare. Ho voluto invitare Stefano Serretta esattamente perché lavora molto sulla narrazione della storia, mettendone in luce problematiche e contraddizioni ma soprattutto analizzandone tanto le ciclicità quanto le fratture».
Installation view, Lia Cecchin, ASAP Research Library, ex magazzino Borgo del Ponte
Eppure queste opere/non-opere sembrano calarsi maggiormente nel tessuto collettivo e nella realtà delle varie persone coinvolte. Nel tuo campo di ricerca principale, il gruppo dei concettualisti moscoviti, è molto forte la tensione fra opera, intesa come prodotto individuale e collettività. A partire da questo dualismo come inquadreresti il progetto di Cantieri Aperti?
A.F.: «Sicuramente la mia pratica curatoriale è molto influenzata dalla mia formazione come storica dell’arte e dalle mie ricerche sull’arte sovietica non conforme e sul concettualismo di Mosca, ora fondamento del mio dottorato di ricerca. Da queste continuo a trarre nuovi spunti per approfondire temi che in generale appartengono a tutta la produzione artistica attuale quali la crisi così come la riaffermazione dell’autorialità, il ruolo della collettività, la pervasività della dimensione politica nelle vicende artistiche, la critica alle istituzioni, l’auto-produzione e i processi di auto-istituzionalizzazione, che cerco di interpretare per verificare quanto la storia dell’arte, come disciplina, sia continuamente da riscrivere. Se creiamo un parallelo tra il concettualismo di Mosca e Cantieri Aperti, di primo impatto noto più differenze che vicinanze, dovute sì alla differente epoca, ma proprio alle basi con cui questi due “fenomeni” si sono sviluppati. Il concettualismo di Mosca si è sviluppato nel contesto dell’arte sovietica non ufficiale tra gli anni Settanta e Ottanta, per poi aprirsi allo scenario internazionale a seguito dell’emigrazione degli artisti tra Europa e Stati Uniti d’America iniziata con il contagocce dalla metà degli anni Settanta ma compiutasi a ridosso del crollo dell’URSS. La condivisione di uno stile di vita caratterizzato da un forte controllo statale e dalla repressione delle espressioni artistiche non governative ha chiaramente influenzato la loro produzione, da leggersi anche nell’ottica dell’autoreferenzialità e di una tendenza propria verso la riflessione sul proprio status professionale, ma anche come ricerca metodologicamente affina a quella dell’arte concettuale anglo-americana e del concettualismo da cui hanno ripreso il nome. Sotto l’etichetta di concettualisti si sono riuniti artisti e autori (alcuni più legati alla letteratura) con una ricerca personale, ma sono state molte le occasioni per realizzare opere collettive, collaborazioni e progetti editoriali di chiaro intento auto-istituzionalizzante come MANI, e così via. Si sono anche inventati nuovi artisti per allargare una cerchia numericamente molto ristretta e che si incontrava tra mostre in appartamenti privati, come il fenomeno dell’APT-ART, ed eventi fuori città, invitando in segreto pochi invitati selezionati perché persone di fiducia. Guardando da questa prospettiva le numerose opere dedicate l’uno all’altro, le collaborazioni ma anche il funzionamento di alcune opere, pensate e realizzate per essere interattive (come Ten Characters di Ilya Kabakov, così le Collective Actions di Andrei Monastirsky o le azioni di SZ – duo composto da Viktor Skersis e Vadim Zakharov), la loro produzione appare ovviamente contestualizzata e molto connessa prima al loro ambiente, e ciò vale per quando si trovavano a Mosca, e poi anche al passato, e questo in rispetto al trasferimento all’estero e all’inserimento della loro pratica nel sistema artistico internazionale. Parlando invece di Cantieri Aperti come festival, secondo me si può parlare di autorialità condivisa solo in alcuni casi, e anche in questi sono tuttavia presenti delle figure che in qualche maniera dirigono l’andamento dell’evento. Quello che ci tengo a evidenziare è che “il pubblico” ha avuto un ruolo attivo nella realizzazione delle opere di Semi Cattivi, ma non si è mai autodefinito artista, inoltre non lo ha ricoperto nelle residenze, per cui è stato più un testimone di fatti, aiuto nella produzione, o partecipante. L’evento più collettivo è stato forse raggiunto quest’anno con il tavolo di argilla, ma ad ogni modo l’idea è stata unicamente di Serretta che ha realizzato la forma e l’ha poi condivisa con altre persone. Potrebbe forse essere interessante provare a mischiare le carte in futuro e invitare artisti a realizzare un progetto artistico condiviso, ma da curatrice non progetterei mai niente di simile, credo che dovrebbe essere una cerchia di persone a deciderlo assieme, non un curatore. Allo stato attuale vedo il festival come un contenitore di produzione artistica, come tanti altri festival, la quale però viene condivisa in formati veramente non istituzionali e non formali con un pubblico molto variegato, e questa secondo me è la sua principale caratteristica e forza. Condivisa nel senso che viene meno il concetto di presentazione, non c’è un white cube né un’istituzione coinvolta, bensì piazze, strade, cantine e androni di palazzi, ma comunque non si tratta di un quartiere di artisti che partecipa attivamente alla concezione di opere d’arte. Siamo forse in una situazione ibrida nel senso che contribuiscono a plasmare il processo ma non partecipano né alla programmazione né alla concezione delle opere/interventi in quanto tali. Forse, per avere un’esperienza di condivisione così forte e vicina a quella dei concettualisti di Mosca, dovremmo provare a lavorare con artisti che oggi definiscono le loro pratiche relazionali, ma al momento non sono ancora stati coinvolti e secondo me non è stato un caso».
Locandina vocalist (volantini), Caterina Erica Shanta, andava di brutto, ma il tipo che parlava, se stava zitto era meglio (2016)
Mi sembra che l’approccio curatoriale sviluppato nella mostra “Certo che questo mondo è tutto da rifare comincia a urlare” giocasse molto sulla rilettura delle opere nel contesto specifico del Borgo. A partire dall’opera di Lia Cecchin ASAP in cui il suo archivio di libri veniva agito da Alessandro Conti in un’azione di reading teatrale, fino a servire del caffè nello stesso contesto, per poi continuare con il video Due di Riccardo Giacconi presentato su di un monitor in strada in una posizione per nulla neutra, fino a servire il cervelletto (un cocktail anni ’90) durante l’intervento sonoro di Caterina Shanta basato sulla figura del vocalist. Tutti questi elementi (lettura teatrale, caffè, cocktail, ecc..) concorrono ad una sorta di estensione narrativa dell’opera, in cui partecipano altri sensi, oltre quello chiamato in causa dall’opera stessa. Per voi è una rilettura del lavoro, un adeguamento a seconda del contesto o un elemento di semplice display?
Carolina Gestri: «La mostra è stata ideata riflettendo prima di tutto su quale sarebbe stato il suo pubblico. Di cosa vogliamo parlare con gli abitanti del Borgo e con gli ospiti del Festival? Cosa mostrare a chi non è solito andare per musei e gallerie? Queste sono state le prime domande che ci siamo posti. Le opere e i progetti selezionati secondo noi hanno già una loro naturale predisposizione al confronto con la comunità. Non sono lavori elitari. Lia Cecchin, Riccardo Giacconi, Caterina Erica Shanta e il gruppo de Il Paese Nero, nella loro pratica artistica, cercano sempre un rapporto dialogico tra loro e la collettività. Quello che abbiamo aggiunto io e Gabriele è stata la costruzione di un percorso temporale, nell’arco della giornata, e geografico, nei luoghi del Borgo, cercando di creare un’atmosfera molto rilassata con il pubblico e fungendo da mediatori tra i fruitori e le opere. Servire il caffè a chi si tratteneva nella biblioteca temporanea di Cecchin (ASAP) era un modo per iniziare a parlare del progetto, per dare modo al visitatore di sentirsi a suo agio nel farmi delle domande. Come ti dicevo, pensare al contesto in cui ci trovavamo è stato una nostra priorità.
ASAP Research Library è un’opera non statica, potenzialmente performativa, nel senso che quei libri non sono oggetti da conservare come feticci di un tempo, ma materiali capaci di avviare una riflessione collettiva sul presente e sul futuro prossimo se inseriti in una nuova narrazione da qualcuno. In passato, durante l’edizione 2015 di SPRINT (Milano), Cecchin aveva per esempio realizzato un talk per presentare ASAP, coinvolgendo il filosofo Roberto Poli per aprire il dibattito con il pubblico sul concetto di «futuribilità». In occasione di Certo che questo mondo è tutto da rifare comincia a urlare coinvolgere uno degli attori del festival in un reading ci è sembrato un modo per rispettare la volontà dell’artista e il programma che ci stava ospitando. Per quanto riguarda Giacconi, avevamo già visto il suo video
Due mostrato su un tubo catodico, in un hantarex. Portare l’opera nello spazio pubblico, nelle strade del Borgo, ci è sembrato il naturale adattarsi del lavoro al bioritmo della frazione di Massa, dove tutti si ritrovano sempre vicino alla fontana a chiacchierare, nessuno sta mai chiuso in casa. Da qui l’idea di creare un’atmosfera da Italia ’90, con la TV come elemento di aggregazione anziché di isolamento. Arriviamo a Shanta con a
ndava di brutto, ma il tipo che parlava, se stava zitto era meglio. L’aperitivo è stato scelto sempre perché è da tutti considerato come uno dei momenti più aggregativi della giornata. Con lo shot/momento cocktail volevamo sia rafforzare l’atmosfera da club anni Novanta rievocata dall’opera dell’artista, sia trovare un modo per far fruire una traccia audio a un pubblico non troppo abituato a sessioni di ascolto. Il luogo dedicato a
Una comunicazione magnetica con la natura, il lavoro de Il Paese Nero (Nicola Di Croce, Luca Ruali, Mata Trifilò), è stato fortemente voluto dagli architetti che compongono il collettivo. Cercavano un ambiente aperto, di ritrovo per gli abitanti e allo stesso tempo immerso nel paesaggio circostante, senza troppe sovrastrutture proiettando le immagini direttamente sulla parete grezza. In questo caso abbiamo semplicemente seguito le loro richieste e disposto in maniera casuale le classiche sedie di plastica da bar sport nel piazzale, così da rendere più informale il live-set/lecture».
Alessandro Conti durante il reading di alcuni libri del fondo di ASAP (di Lia Cecchin)
Il contesto di Cantieri Aperti cerca di creare delle sinergie fra i vari mondi delle discipline artistiche, invitando a partecipare contemporaneamente sia artisti visivi che personalità legate al teatro, ma quello che spesso si nota è una scarsa relazione e conoscenza fra questi mondi. Guardando alla tua formazione, rivolta anche al teatro e ai linguaggi ibridi, come vedi la scena attuale rispetto per esempio a gruppi ormai storici del teatro sperimentale?
C.G.: «Bella domanda. Spero di non semplificare troppo il discorso che è sicuramente molto complesso e che non può avere una risposta esaustiva. Diciamo che un tempo questi due mondi si conoscevano molto bene. Con la mostra curata da Maurizio Calvesi «Il Teatro delle Mostre», tenuta alla Galleria La Tartaruga (Roma) di Plinio De Martiis nel 1968 e con la nascita delle prime compagnie di teatro di post-avanguardia agli inizi degli anni ‘70 si inizia ad assistere a un libero scambio di informazioni tra le arti visive e il teatro. Rassegne dedicate alla performance art si rifanno a schemi e a tempi tipici dei festival teatrali, inclusi gli spazi che vengono utilizzati. Come ha spiegato lo stesso Calvesi riferendosi alla sua mostra ««L’idea di teatro è legata non tanto alla spettacolarità delle opere quanto dal loro carattere preminente di azioni, nonché alla trovata della ‘successione scenica’, per così dire, degli artisti-attori». (Roma anni ’60: al di là della pittura, a cura di M. Calvesi, R. Siligato, Palazzo delle esposizioni, 20 dicembre-15 febbraio 1991 Roma, Carte Segrete, 1990, p. 31)
Le compagnie invece si avvicinano alle arti visive collaborando con artisti dell’epoca, inserendo elementi in scena riferibili alla loro produzione del tempo. Anche il cosiddetto “teatro analitico-matematico” (Cf. R. Bonfiglioli, Frequenze barbare: Teatro Ambiente, Cinema, Mass Media, Metropoli, Musica, Pornografia nel Carrozzone Magazzini Criminali Prod., Firenze, La Casa Usher, 1981), che frammentando le scene e moltiplicando gli spazi mette in crisi il concetto di unicità del palco e di sequenzialità della sceneggiatura e che induce lo spettatore a una sua ricostruzione mentale della narrazione, prende spunto da una metodologia tipica degli artisti concettuali. Fino agli anni Ottanta, le recensioni degli spettacoli vengono pubblicate su riviste dedicate all’arte come «Flash Art» (cf. M. Gordon, Teatro americano d’avanguardia: Gli Ottanta, «Flash Art», n. 96-97, aprile-maggio 1980. G. Bartolucci, Il teatro della post-avanguardia in Italia, «Flash Art», n. 96-97, aprile-maggio 1980) e i curatori della Settimana della Performance Art bolognese mettono in discussione la propria posizione arrivando ad autodefinirsi più vicini alla figura di «impresari teatrali» che di storici e critici d’arte. Oggi le cose sono cambiate, come dici, i due mondi non comunicano più così tanto. Il corpo ai tempi era al centro dell’attenzione del pubblico e dei due campi. Nell’ambito della performance art invece ultimamente la presenza in scena dell’artista o dei performer pare essere legittimata solo in due casi specifici: nelle performance lecture, risultato della nuova attitudine di «artista-ricercatore», e nelle performance corali e/o coreografate, che fungono da mezzo di comunicazione sociale alternativo permettendo la divulgazione veritiera di storie ed eventi politici non falsificate o appannate dai mass media. Nel secondo caso vedo il recupero di un’eredità del teatro di post-avanguardia. Si gioca spesso anche con il valore ormai anacronistico di certe azioni strettamente legate alle ricerche di fine anni ‘60 e inizio ’70, rimesse in circolo allo stesso modo con cui vengono riproposti stereotipi nazionalisti e/o colonialisti allo scopo di destrutturarli una volta per tutte.
In tutti gli altri casi in cui il corpo non è al centro della scena si indaga verso ciò che è visto come potenzialmente performativo, relazionale e aggregativo.
Tornando alla mostra, direi che rientrano in quest’ultima categoria ASAP, andava di brutto, ma il tipo che parlava, se stava zitto era meglio e Due, per i motivi esposti nella precedente risposta e per quelli che seguono in conclusione. Il progetto de Il Paese Nero è invece sicuramente più affine alla
performance lecture vista la natura della loro ricerca che presto troverà una sua formalizzazione in una pubblicazione di prossima uscita.
Comunque mi faccio spesso questa domanda che mi hai posto, l’ultima volta è successo la scorsa estate durante LIVE WORKS a Centrale Fies. Credo che sia importante riflettere su una possibile eredità laboratoriale del teatro di post-avanguardia, ma allo stesso tempo è necessario anche domandarci come quelle ricerche ormai storicizzate potrebbero avere un valore sociale oggi come ieri. Il corpo adesso non ha più un grande valore simbolico, non è più veicolo di messaggio come un tempo. Sembra che debba essere sempre accompagnato da una ricerca, dalla musica, dal video per raggiungere il pubblico e comunicare in maniera efficace. Oggi al centro dell’attenzione non vi è dunque il singolo rispetto alla massa, ma il potere della trasmissione delle informazioni nei confronti della società. Boris Groys, teorico dei media, in un articolo ormai datato 2009 e pubblicato poi nella raccolta Going Public, parla in maniera secondo me molto interessante della performatività delle arti visive in relazione alla trasmissione delle immagini digitali. Tornando a quello che dicevo prima, ovvero sulla ricerca in atto riguardo a tutto ciò che può avere una valenza performativa, cito il passaggio di Groys dove si può cogliere che tutto ciò che può essere “eseguito” e reso da “silenzioso” a parlante può essere inteso come performativo. «Le immagini digitali vengono sempre e soltanto messe in scena o eseguite. In questo modo funzionano come un brano musicale che non è mai identico allo spartito, essendo quest’ultimo silenzioso. Perché la musica risuoni è necessario eseguire la partitura. Si potrebbe pensare che la digitalizzazione rende performative le arti visive, convertendole in arti dello spettacolo. Eseguire qualcosa significa interpretarlo, tradirlo, distruggerlo».
Giulio Saverio Rossi