Categorie: lavagna

INDEPENDENTS

di - 6 Maggio 2019
In occasione della sua personale Arzanà, a cura di Domenico De Chirico, incontro Marco Maria Zanin alla galleria Marignana Arte di Venezia. Zanin ha fondato tre anni fa una piattaforma che opera in diverse parti del Veneto, Humus Interdisciplinary organizzando residenze artistiche sul territorio.
Le tematiche che tratti sono a me care, non sono distanti dalle fondamenta che hanno generato la struttura in cui opera il mio gruppo di lavoro. Imparare a guardare ciò che è sempre stato lì, mi daresti una tua definizione di paesaggio?
«Di definizioni di paesaggio ne sono state date molteplici, se dovessi costruirne una mia si inserirebbe certamente nel filone che integra agli elementi materiali anche quelli immateriali. Ora che ci stiamo occupando del rilancio del Museo della Civiltà Contadina di Torre di Mosto (Venezia), uno dei primi strumenti che stiamo sviluppando per costruire le diverse reti che si occuperanno di farlo vivere e vibrare è la ‘Mappa di Comunità’, ovvero uno strumento che indica nel territorio dove e quali sono gli attori che individuano, elaborano e trasmettono il patrimonio e le specificità del tessuto locale. Vorrei poter attraversare un paesaggio fatto di vita e di relazioni, di modo che quel tratto di fiume, quella antica tradizione o quel monumento possano raccontarmi come sono nati, qualche aneddoto della loro vita che mi faccia ridere o commuovere, che mi faccia sentire parte di quei segni o testimonianze e che possano accompagnarmi nel presente e nel futuro. Questo lo possono fare in primis le persone: per cui per me il paesaggio è un insieme dei suoi elementi materiali (caratteristiche geografiche, elementi naturali, patrimonio culturale) ma anche e soprattutto di chi si assume la responsabilità di viverlo e ne trasmette la vita nelle sue piene potenzialità».
‘Il tesoro è sempre più grande di quello che hai stretto tra le mani’, lavori di Marco Maria Zanin e Pedro Vaz
Disegnami il rapporto tra Arte e Agricoltura.
«Più che agricoltura che è un termine molto generico, ho sempre riferito l’azione di Humus Interdisciplinary (e ancor prima, del mio lavoro), alla civiltà contadina, ovvero un mondo che si è certamente occupato di agricoltura ma che racchiude molto di più della pratica del lavoro della terra: è un sistema di valori, credenze, rituali, modi di esistere in relazione al territorio e alla comunità, che come temporalità è stata interrotta e soppiantata dalla civiltà industriale. L’arte contemporanea è essenzialmente, come la bacchetta del rabdomante, uno strumento di ricerca di dove ancora scorre linfa vitale dentro a questo universo sotterraneo e, ancora di più, di rilettura. Humus Interdisciplinary è un attivatore di patrimoni che non esprimono appieno le loro potenzialità, e nella sua missione vi è proprio lo svelamento di queste potenzialità, che poi, grazie a un lavoro interdisciplinare, vengono messe in circolo per creare sviluppo e coesione sociale. Il rapporto tra Arte Contemporanea e Civiltà Contadina dunque vorrei fosse un cortocircuito, una scossa che fa emergere nella seconda il suo potenziale contemporaneo e magari, perché no, che porta un po’ più “a terra” la prima».
Perché agire nel Veneto Orientale?
«Avevamo lavorato i primi anni di Humus in Bassa Padovana, un’area poco più a nord del Polesine rimasta anch’essa tagliata fuori dallo sviluppo industriale del Nordest, interessantissima, piena di tradizioni popolari ancora sopravviventi, ma il progetto era ancora poco più di un esperimento. Poi venne fuori un finanziamento per un’iniziativa più strutturata nel Veneto Orientale, all’interno del Piano di Sviluppo Locale di VeGAL (Agenzia di Sviluppo creata dalla Commissione Europea) e abbiamo organizzato una residenza artistica con quattro artisti internazionali all’interno del Museo della Civiltà Contadina di Torre di Mosto, che soffriva da diversi anni di diversi problemi di gestione e sviluppo. Per farla breve, la residenza aveva generato ottimi risultati, ribaltando in maniera significativa le relazioni attorno alla questione del Museo ed erano emersi dalla comunità locale inviti a ritornare. Abbiamo deciso di farlo in maniera radicale: abbiamo preparato un piano per la costituzione della Fondazione di Partecipazione RADICI, che si sta occupando della trasformazione e del rilancio del Museo in un centro internazionale di ricerca, elaborazione e restituzione del patrimonio locale. Perché? Innanzitutto perché le periferie rurali costituiscono tesori inestimabili di valore per i tempi che stiamo vivendo: il rapporto con la terra, con il tempo, con le tradizioni popolari, la manualità e i rituali collettivi vanno riportati dentro la nostra sfera, non certo in chiave nostalgica ma per riequilibrare le trasformazioni e le conquiste degli ultimi tempi. Sono una parte sana della nostra identità da rileggere con gli occhi nuovi e con i nuovi strumenti a disposizione. Si tratta di un’area fuori dal mondo, ma nemmeno lontana dal Nordest industriale, che può e deve diventare un laboratorio in cui questi due mondi così distanti dialoghino e ragionino assieme su quali sono le migliori strategie di innovazione per costruire un futuro sostenibile e culturalmente fondato. In ultimo, la forma del Museo: un attore politico nel senso di un luogo in cui discutere ed elaborare strategie per lo sviluppo del territorio, non solo un ‘tempio’ dedicato alla conservazione ma un ‘forum’ in cui, attraverso la narrazione e la partecipazione, elaborare e restituire alla comunità il patrimonio».
Attrezzi agricoli dentro al Museo della Civiltà Contadina
“Humus Interdisciplinary” nasce da una collaborazione con artisti brasiliani, perché proprio questa nazione, cosa ti lega ad essa, cosa hanno apportato alla tua terra d’origine?
«Ho vissuto a San Paolo cinque anni andando e venendo dall’Italia, da Padova, mia città di origine. Ho sempre riconosciuto in quella città la follia contemporanea dello sviluppo a qualunque costo, cosa che mi ha sempre affascinato e insegnato molto. San Paolo è un ‘acceleratore di particelle’ accadono infinite cose in un breve lasso di tempo, tutto è mischiato, diluito; radici culturali, memoria storica, tradizioni vengono centrifugate, smantellate e cestinate o ricollocate random nel tessuto urbano e sociale. Un processo che per certi versi è certamente patologico, per altri è un antidoto a una certa tendenza alla stasi della nostra cultura europea. Capirai bene perché invitare i brasiliani nel Veneto rurale. Il primo esperimento è stato nel 2016 in Bassa Padovana con Victor Leguy e Ivan Grilo, artisti che lavorano entrambi sulla decostruzione dei punti di vista che hanno scritto la storia. Con loro abbiamo svolto diversi attraversamenti delle aree da cui erano partiti molti contadini per emigrare in Sud America, verso una profonda operazione di ‘scavo’ sulle cause della migrazione che ha svelato punti di vista inusuali sia per noi che per loro, con una resa plastica nei lavori molto forte».
Chi è al tuo fianco in questo viaggio?
«I pilastri di Humus Interdisciplinary, per ora, sono due, io che faccio l’artista (ma con una formazione in filosofia e diritto internazionale) e Michele Romanelli, psicologo e mediatore di conflitto. Michele si occupa di una parte essenziale, ovvero la misurazione dell’impatto sociale dei progetti di Humus, usando una metodologia molto interessante che misura la portata generativa del linguaggio verso la costruzione di comunità e l’incremento della coesione sociale. Assieme a noi lavorano molte altre figure appartenenti sia al mondo dell’arte sia di diverse discipline, dipendendo dal progetto: ci sono sempre uno o più curatori, in questo momento stiamo lavorando con un sociologo, un economista e un esperto di marketing».
Arzanà: cultura popolare e territorio, mi sembra ci sia un profondo legame con Humus…
«Certamente. Io oltre che occuparmi di Humus continuo a lavorare come artista e a produrre opere plastiche (fotografia e scultura), ma la direzione è sempre quella, ovvero la rilettura del mondo legato alla cultura popolare, alle tradizioni etc. Arzaná è il nome di un’associazione veneziana che si occupa di trasmettere la memoria legata alla navigazione in laguna, e hanno un bellissimo piccolo museo in uno squero a Venezia. Per la project room a Marignana Arte, curata da Domenico De Chirico, ho preso alcuni pezzi della collezione del museo e li ho portati all’interno dell’atelier di scultura dell’Accademia delle Belle Arti, in cui li ho fotografati e alcuni trasformati in sculture di ceramica, per svelarne, come cerco di fare quasi sempre, altri mondi al loro interno legati a qualcosa di totemico o mitologico».
Jack Fischer

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