15 luglio 2019

INDEPENDENTS

 
Dieci anni di Cripta a Torino. Ce li racconta Elisa Troiano
di Jack Fischer

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Un pranzo domenicale nel giardino di Casa Sponge, una tavola rotonda improvvisata, tra un bicchiere di vino e l’altro si avviano dialoghi di senso. Il tema non lo si decide mai a monte l’importante è il confronto. Quel giorno si  discusse di residenze e mobilità, ci colpì il racconto di Chris Rocchegiani, su un lavoro che sta per iniziare a Torino in uno spazio non convenzionale Cripta747. Decidiamo di andarli a trovare in occasione di un Open Studio, e a Elisa Troiano, uno dei fondatori, chiediamo di raccontarci storia e motivazioni
Cripta747 ha compiuto da poco dieci anni. Nata nel 2008, con una evoluzione nel 2017. Ci raccontate le basi, la filosofia d’azione e il suo ultimo mutamento?
«L’inizio è stato quasi un caso, uno spazio in affitto nella Galleria Umberto I a Porta Palazzo, quartiere dove in quegli anni vivevo con Alexandro Tripodi e Renato Leotta, i co-fondatori del progetto. Nei primi anni di programma abbiamo cercato di mettere in campo tutte le nostre forze e conoscenze, per portare a Torino quello che sentivamo mancare. Sono nati così i primi progetti espositivi, in una costante messa in discussione dell’autorialità e dell’iter creativo. Si alternavano artisti italiani e stranieri, mostre personali e collettive e ponevamo le basi per la creazione di una rete, di spazi e persone con cui condividere attitudini, visioni e modalità operative. Il programma inoltre si distingueva per una vivace offerta musicale e abbiamo avuto modo di collaborare con diverse organizzazioni dedicate alla promozione e divulgazione della cultura musicale e sonora come La Delirante, Hundebiss Record e TDC. C’era alla base un forte interesse verso il paesaggio e l’architettura e la volontà di rallentare la visione dello spettatore di fronte all’opera, come se si trovasse, appunto, davanti ad un orizzonte naturale. Negli anni molte cose sono cambiate e adesso guardando indietro quello che mi rende più felice ed orgogliosa è sicuramente la rete di collaborazioni che hanno alimentato il progetto».
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Agite nella periferia torinese, sodali con le piccole imprese artigianali locali. Che genere di rapporto avete e come si attua?
«La nuova sede, è all’interno di un distretto culturale e di produzione in un’area che ha visto e vedrà nei prossimi anni forti cambiamenti, urbanistici e sociali. La connotazione produttiva dell’area e la nuova conformazione dello spazio ci hanno portato a modificare i formati del programma, interrompendo il calendario espositivo per lasciare spazio ai programmi di mobilità. Residency Programme, per supportare la ricerca grazie a due borse di Studio messe a disposizione da Compagnia di San Paolo, e Studio Programme, programma di studi condivisi reso possibile grazie al supporto di Fondazione CRT. Condividiamo il cortile con alcune piccole imprese artigiane: fabbri, falegnami, carrozzieri, mosaicisti, tipografie e scenografi, con i quali abbiamo instaurato un rapporto di collaborazione diretto, dove gli artisti hanno accesso ai laboratori e possono usufruire del supporto logistico e operativo dei vari artigiani presenti. Crediamo che questa nuova veste abbia dato al progetto un’ulteriore possibilità di crescita, preziosa e stimolante».
Open Studio: di cosa si tratta e perché l’importanza di fare lavorare artisti e curatori insieme?
«Abbiamo trovato nell’Open Studio la formula perfetta per coinvolgere il pubblico in modo diretto e inclusivo, rendendolo consapevole dei processi legati alla produzione dell’opera e cercando di aprire il più possibile il dibattito intorno alla ricerca artistica. Infatti questo formato, escludendo il filtro curatoriale più classico delle mostre, permette  al pubblico di interfacciarsi con l’artista. I nuovi programmi di Studio e Residenza hanno alla base la mobilità e la forte attenzione che il nostro progetto dedica al contesto sociale, economico e culturale della città».
Cosa avete all’orizzonte?
«L’idea è quella di continuare a crescere sia nell’offerta al pubblico, agli artisti e ai curatori, sia come struttura organizzativa, attraverso un percorso coerente pensato a partire dai programmi. Ci piacerebbe poter potenziare i nostri programmi di mobilità, creando reti e partnership in Italia e all’estero in grado di fornire un supporto puntuale, basato sulle reali esigenze delle ricerche e delle produzione che via via andremo ad accompagnare. Vorremmo inoltre, parallelamente ai programmi avviati, tornare a curare progetti espositivi in grado di fornire un punto di vista più ampio e nuove occasioni di dibattito».
Jack Fischer

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