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Questa 57esima Biennale curata da Christine Macel è la dimostrazione di come non sempre delle buone premesse conducano a risultati altrettanto buoni. Capita. Hai una buona idea per un romanzo, per un film, per una mostra, ma poi il risultato, la definizione di quell’idea nel “prodotto” finale non riesce a soddisfare quelle premesse riducendone i contenuti, come in questo caso, ad una declinazione piuttosto ingenua e soprattutto ancora debitrice ad un postmoderno del quale si avverte tutta l’inadeguatezza. La Macel è convinta, per la verità come molti di noi, che l’arte sia parte integrante della quotidianità, un elemento decisivo dello sviluppo della nostra società in grado di trasformare la realtà e quindi la società. Ma in quale modo l’arte, l’artista, riesce a svolgere questa missione necessaria, prima che possibile? La curatrice pone l’accento sull’emozione, sul ruolo decisivo che bisogna restituirle, perché la ragione non basta. E qui iniziano le prime perplessità. All’arte e agli artisti viene infatti ancora attribuita una funzione che proviene dal passato, dove il loro ruolo era quello di elaborare una rappresentazione consolatoria e pacificatrice a beneficio di un pubblico che, nell’occasione richiesto ad una partecipazione relazionale e appunto postmoderna, non è solo in contemplazione ammirata ed emozionata, ma è chiamato a collaborare cucendo, ricamando o dialogando intorno ad una tavola da pranzo. Una postmodernità che, e di certo non vi sarà sfuggito, è denunciata già dall’uso del prefisso trans che accompagna i padiglioni tematici nei quali è suddivisa la mostra. Aggiungiamo che il tutto è ben ordinato in un allestimento semplice, museale e quindi rassicurante. Ma è questa l’arte che stiamo vivendo nel tempo e nel mondo in cui siamo? Non siamo invece di fronte ad un momento nel quale l’arte sta ansiosamente cercando un nuovo ruolo nella società sempre più complessa e problematica che stiamo costruendo? E questo ruolo non è più decisamente orientato ad offrirsi come conoscenza, e quindi proponendosi come alternativa di tipo etico piuttosto che di un’estetica ancorché emozionante?
La mostra della Macel scorre così con un tono piuttosto piatto, senza sorprese, con poche, pochissime, opere in grado di fermarti, dimostrando un’insufficienza critico-curatoriale nella scelta degli artisti e delle opere. Tra queste, davvero fuori dal generale andamento monocorde e, per dirla tutta, noioso, vanno segnalate solo quella di Ernesto Neto all’Arsenale, e quelle di Olafur Eliasson, Hassan Sharif e Kiki Smith nel padiglione centrale dei Giardini.
La Biennale trova invece confortanti e decisi colpi d’ala in alcuni padiglioni nazionali, che restituiscono all’arte quella tensione e complessità che appunto è del nostro quotidiano. Naturalmente la Germania con Anne Imhof, meritatamente vincitrice del Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale. Poi il Brasile rappresentato da Cinthia Marcelle, anch’essa premiata con una menzione speciale. Ai quali aggiungo l’Australia con Tracey Moffatt e il Messico con Carlos Amorales.
Discorso a parte merita ovviamente il nostro padiglione. Da condividere il commento generale: finalmente abbiamo un padiglione; come quello (voce del sen fuggita) dell’autorità competente che ha recitato più o meno con un: non ci voleva molto. In ogni caso il mondo magico di ispirazione demartiniana ci ha messo in una condizione di parità e anche competitività con gli altri padiglioni, e visti i precedenti non è cosa da poco.
Ma quello che vorrei annotare – oltre il lavoro molto complesso e interessante di Roberto Cuoghi, quello suggestivo di Giorgio Andreotta Calò, ancorché evidentemente debitore all’opera di Per Barclay, e quello di Adelita Husni-Bey, anch’esso tra i lavori interessanti di questa Biennale, e nei confronti del quale si può solo imputare che sarebbe stato più opportuno e forse anche più efficace, vista la collocazione, che il video fosse stato girato in Italia con protagonisti italiani, e quindi in italiano con sottotitoli in inglese -, è la quasi oscurità in cui è avvolto il padiglione stesso che assume una qualità decisiva di senso. Almeno in parte lo richiedevano le opere e quindi deve essere stata una condizione fisiologica. Ma nonostante ciò, quella penombra, quasi oscurità, mi pare restituisca con efficacia la condizione del nostro Paese in questo momento storico, di contro invece alla trasparenza e luminosità nelle quali sono mostrate le tensioni ad esempio nel padiglione tedesco. Una considerazione utile a rimanere sul versante giusto dei rapporti tra opera d’arte e quotidiano.
Raffaele Gavarro