Categorie: lavagna

La grande bellezza del Palazzo Enciclopedico

di - 20 Giugno 2013
La Biennale quest’anno è essenzialmente la mostra del direttore: sorpresa e qualità  si trovano soprattutto nel Palazzo Enciclopedico. Mi è piaciuta questa prevalenza della critica.
Cosa ci aspetta da un direttore? Che dica la sua opinione in modo preciso e deciso. Gioni lo fatto attraverso opere che si intrecciavano al  suo pensiero. Un comportamento impeccabile, o almeno quello che sarebbe normale aspettarsi dalla mostra guida della più importante Biennale del mondo. Da tempo non succedeva, direi dalle due Biennali di Szeemann. Non si era, quindi,  più abituati a confrontarsi con  un’opinione, invece che con un elenco di eccellenze. Così ho sentito molte perplessità che non riguardavano tanto l’opinione in sé, ma piuttosto il frusto stereotipo  del “curatore  che prevale sull’artista”.
È pur vero che viviamo in un’epoca dove l’artista “produttore” espande la sua influenza dalla comunicazione al mercato e quindi tanto varrebbe che si curasse da solo le mostre e decidesse la selezione preferenziale a cui partecipare.

C’è del vero nella sempre più forte supremazia dell’artista  nel sistema  in cui presenta il suo lavoro, ma io ho un’altra idea dell’arte. Penso che sia prima di tutto l’occasione per mettere a confronto due soggetti: quello incarnato nell’opera e quello dell’osservatore, privilegiato o meno che sia. Quindi sono attratta dalle opinioni altrui che magari suscitano in me letture diverse, come sempre succede davanti a un’opera da qualsiasi epoca provenga.
Gioni ha scelto di creare un cortocircuito con una grande area culturale che, all’inizio del secolo scorso, ha camminato accanto alla nascita della scienza contemporanea e della psicanalisi, parlo del complesso mondo  della conoscenza esoterica che ha innervato l’ energia che circolava negli anni 1915-1945, che il politologo Giorgio Galli definisce “la Seconda Guerra dei Trentanni”. Un’energia che ha intuito cambiamenti radicali per quanto riguarda la soggettività, dall’estensione del voto alle donne, alla speculazione scientifica che, oltre alla teoria della relatività di Einstein, delineava una relazione imprescindibile tra osservatore e oggetto osservato; al recupero delle figure archetipiche di Jung per analizzare la coscienza individuale; all’antroposofia di Rudolf Steiner che ha creato le basi per una medicina che dialettizza le moderne scoperte scientifiche di farmaci e tecniche chirurgiche. Ma questa straordinaria energia che ha dato vita a grandi geni: Freud, Jung, Ibsen, Joyce, Virginia Woolf, Munch, Malevic, Mondrian, Boccioni, Picasso e tanti altri, è poi deflagrata nella tragedia del Nazismo e dello Stalinismo. Così quelle conoscenze – che  dal 1600, con la nascita della democrazia rappresentativa e della scienza moderna, hanno camminato accanto allo sviluppo della grande cultura illuminista (anche Newton era un alchimista) – sono state parzialmente utilizzate anche dalla cultura nazista. Da qui il giustificato sospetto per tutto ciò che viene definito irrazionale.

Tuttavia, molti sono gli studiosi che hanno individuato in quelle conoscenze  gli snodi necessari per comprendere la stessa architettura illuminista e non solo dei “momenti bui” che offuscavano la ragione.
La ragione enciclopedica che Gioni ci presenta va in questa direzione e s’interroga su un concetto di spiritualità che tenga conto non solo delle grandi religioni monoteistiche, ma anche di un amalgama di percezioni emotive, esperienziali e conoscitive che tanto influiscono nell’identità individuale e, come diceva Jung, nel costante sviluppo dell’inconscio collettivo.
Quando leggiamo un’opera d’arte, anche quella puramente mentale, come Mondrian, che peraltro all’inizio ha contatti con i circoli teosofici di Madame Blavatsky, è normalmente accettato che la componente emotiva si associ a quella speculativa, storica, critica. Diciamo, dunque, che nella nascita dell’opera d’arte la componente spirituale, soggettiva è ritenuta fondante. Il fatto che Gioni lanci una grande “opa” per aggiornare i criteri di selezione dell’Arte con la maiuscola è un salto positivo.
L’energia che stiamo vivendo non ha più la spinta collettiva delle avanguardie storiche o degli anni ’60/’70 del secolo scorso, ma piuttosto quella dell’accumulazione culturale che permette, o meglio impone, uno sguardo sul passato prossimo più articolato, anche per elaborare il senso di colpa derivato dalla deviazione  della  ricerca di cambiamento in  implosione autoritaria.
Il Libro Rosso di Jung, i disegni di Rudolf Steiner, gli acquerelli di Aleister Crowley, nel momento in cui, giustamente, vengono riconosciuti come opere d’arte, ci obbligano a prestare attenzione alla percezione creatrice come un magma che sta alla base dell’identità di tutti.

Non basta accontentarsi di un palese talento nel dare figura a un’emozione, a un pensiero, a una contraddizione politica, bisogna accettare quel quid di enigma che ristagna in ogni uomo e in ogni donna. L’arte ci aiuta a riconoscerlo, a incorporarlo nella conoscenza emotiva e, a partire da qui, a esercitare la propria personale lettura di sé e del mondo. Non tutti siamo artisti, ma – se ci facciamo guidare dai segnali che Gioni ha disseminato lungo il suo testo, critico e narrativo composto dalle opere –  non possiamo che trovare un elemento di fiducia per pensare all’arte non solo come un talento in più, ma come una stratificata relazione tra la vita dei singoli e l’aspirazione a guardare al di là di ciò che si vede.
Perchè parlo di fiducia? perché nessuno ha dubbi sulla maestria di Jung come psicanalista,  quindi il Libro Rosso è una prova riuscita dell’aspirazione ad andare oltre la disciplina.
In altre parole ognuno vive con i propri strumenti: l’arte, la letteratura, il cinema non sono però occasioni per riempire il tempo, ma esperienze che incidono in vario modo nel percorso quotidiano.
Sapere che oltre agli artisti “Intenzionali” ci sono anche quelli che “Esterni” significa – come affermava Beuys –  che tutti siamo artisti, o come diceva Anna Achmatova, «ero lì lì per farlo anch’io e me l’hanno strappato di mano».
Il fatto che tutto questo venga messo in primo piano alla Biennale di Venezia indica un allontanamento dai confini rigidi della disciplina dell’arte.

L’arte è di tutti perché tutti vi partecipano: chi facendola, chi guardandola di sfuggita, chi appropriandosene. E chi altro poteva dire questo se non un critico-curatore che, in quanto tale, rappresenta colui o colei che vede per la prima volta quell’opera-soggetto e ne trae un dialogo?
L’artista predispone  gli strumenti e le intuizioni, ma  ha bisogno che il dialogo venga vissuto e visto almeno da una persona, solo così l’opera soggetto inizia la sua vita nel mondo.
Ecco perché ritengo un po’ vecchio l’adagio del curatore che si sostituisce all’artista. Quella stessa opera-soggetto, se è tale, parteciperà ad altri dialoghi e dirà altre cose: la sua forza sta nell’aprire i significati  in rapporto a chi la guarda.
Nel Palazzo Enciclopedico appare inoltre un’attenzione privilegiata ad alcune donne che non erano mai entrate nella rete, penso a Hilma af Klimt che, come una Emily Dickinson della pittura, aveva deciso che i suoi quadri, provenienti dal suo dialogo con il sapere occultistico, non venissero esposti per vent’anni dopo la sua morte. E quando emersero apparvero come visioni anticipate e indipendenti dell’arte astratta. Emma Kunz produce straordinarie immagini che istintivamente collochiamo in una parentela con Klee o Albers, seppure con una grafia che evoca/anticipa le ricerche cinetiche degli anni 50. Niente di tutto questo: i suoi quadri  erano strumenti per captare trasformare l’energia negativa in funzione della sua attività di guaritrice.
Molte sono le artiste presenti, e molto varie le loro storie, anche di questo c’era bisogno per uscire dallo stereotipo dell’arte “femminile” e anche dalla neutralizzazione ancora attiva per cui non sembra indicativo sapere se l’artista è uomo o donna.

Come ha fatto Gioni a trovare tutti questi esempi di incroci tra la via razionale dell’arte e quella soggettiva, magmatica, multidisciplinare? Ha studiato. Ma ha anche preso in parola i suggerimenti che gli venivano dalle opere-soggetto che ha incontrato, ad esempio da Rose Marie Trockel, presente nella sezione curata da Cindy Sherman.
Nella sua mostra “A Cosmos”, (2012: Reina Sofia di Madrid e New Museum di New York,  2013: Serpentine di Londra e concluderà il suo tour  a Settembre 2013 al Kunst Museum di Bonn) traccia un disegno dell’universo componendo un dialogo tra le sue opere e quelle di creatori di vario tipo, botanici,  zoologici, ornitologi.  Le meduse di vetro del boemo Rudolph Blascka ( 1857 – 1939); le tempere di insetti di Maria Sibylla Merian (1647 – 1717 Amsterdam), quelle di fiori di Mary Delany (1700-1788 Londra);  le acque tinte dell’ornitologo franco-americano John James Audubon (1785-1851),  le sculture di animali di carta di James Castle (1899 – 1977, Idaho) o gli oggetti respiranti del tedesco-polacco Günter Weseler (1930). E nelle vetrine che ha composto per la Biennale, insieme alle sue  opere, ci sono appunto anche Castle e Wesler.
Un esempio diretto di come l’arte sappia creare dialoghi con il passato scovando tra le righe della decorazione  botanico- scientifica opere  “sferiche”, come dice Adriana Polveroni.

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  • Dissento con quasi tutto quello scritto nell'articolo. Vedo ancora la "didascalia" all'opera sostituire l'operaq perchè incomprensibile e distaccata totalmente dalla contemporaneità. Ho visitato la Biennale attraverso una "Performance" di opere politiche (intese come sociologiche e antropologiche) e riconoscibili attraverso un'interpretazione data dalla ricerca. Molte le persone che si sono avvicinate, italiane e straniere. Il risultato, è stato un prendere coscenza che l'arte passata da questi luoghi è scelta perchè svuotata di temi, che portino lo spettatore a porsi domande e a comunicare in modo critico. Lo "spettatore", come viene definita la comunità, viene spinto a pensare di essere "ignorante" perchè non capisce l'opera, che stupidaggine.Il problema in una mancanza di comunicazione è nel comunicatore il più delle volte e non il contrario. Siamo, di nuovo, davanti al "Festival dell'inutile", del prodotto. Una vetrina per mestieranti e non un luogo di cultura.

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