In una delle città imperiali più belle del Marocco, la sublime Marrakech, si è appena aperta la quinta Biennale di Arte Contemporanea dal titolo, molto azzeccato, “Où sommes nous maintenant? dove siamo noi adesso?” e lì ho avuto la fortuna di vivere una delle esperienze artistiche più emotivamente e culturalmente coinvolgenti che mi siano capitate da molto tempo a questa parte (e Linda Jablonsky critica d’arte per il New York Times è dello stesso avviso). Alle 18 del 26 febbraio si è inaugurata una delle tre sedi ufficiali della Biennale, quella nell’ex Banca Al Magrib, che si affaccia nella grande, popolata e folcloristica piazza Jamaa El Fnaa, dove dal mattino all’oscurità si alternano venditori di spezie, di cibo, di acqua, di tartarughe e di camaleonti, guaritori e cerusici che sembrano usciti da un racconto medievale, suonatori, incantatori di serpenti, donne esperte nella decorazione con l’hennè e maghi e ciarlatani di vario tipo.
Quando le pesanti porte di legno istoriato dell’ex istituto di credito si sono aperte per far entrare il solito pubblico internazionale e cool degli addetti ai lavori, le migliaia di persone che animavano la piazza si sono messe in fila e ad ondate si sono riversate curiose all’interno del palazzo. Mai vista una folla simile e più eterogenea ad un opening, gli artisti presenti vicino alle loro opere sono stati presi d’assalto da un pubblico genuinamente desideroso di capire cosa stava succedendo e il significato dei lavori esposti. Una famiglia piuttosto numerosa si è fermata incredula davanti al video del 2008 dell’olandese Anne Verhoijsen dal titolo Visions of Paradise in cui una serie di persone di differenti etnie e religioni spiega, in altrettanti differenti idiomi (arabo, pakistano, inglese, turco, olandese) che cosa è per loro il paradiso. Il capofamiglia, piuttosto perplesso, non voleva che i figli, bambini e adolescenti, guardassero quel lavoro che parlava di religione e ne ascoltassero le risposte, anche la mamma era piuttosto turbata dall’idea che si potesse parlare in maniera così libera di un tema “sacro”. Uno dei curatori ha però avuto la buona idea di presentare l’artista al capofamiglia convincendolo a porre delle domande invece di andare via. La famiglia è rimasta così più di due ore a parlare prima timidamente poi appassionatamente con l’artista olandese di religione, sacralità, tabù ecc….un vero miracolo comunicativo che si è compiuto in maniera del tutto inaspettata.
L’artista marocchino Saadane Afif ha invece presentato una performance, proprio nel centro della piazza, dal titolo (Souvenir) Lecon de gèomètrie (2014) che consisteva nel tenere ogni giorno al calar del sole una vera e propria lezione di geometria aperta a tutti e raramente performance ha avuto un pubblico più numeroso, attento e partecipe. La stessa reazione di desiderio di comprendere, di partecipazione attiva e di grande empatia emotiva l’hanno avuta in tanti e la chiusura dell’edificio prevista per le 23.00 si è protratta fino a mezzanotte. Marrakech è una città dove non c’è cultura del contemporaneo, non ci sono musei dedicati all’arte moderna e l’arte e l’artigianato sono considerati la stessa cosa eppure le opere esposte nelle tre sedi di questa piccola e giovane Biennale hanno funzionato da dispositivi che in qualche modo hanno “massaggiato” le connessioni neuronali degli spettatori che si sono posti delle domande, hanno posto delle domande a loro volta e hanno ascoltato le risposte. L’arte contemporanea è come la letteratura o la filosofia, tutte discipline che aumentano lo spirito critico e quindi sono invise al potere che non ama il pensiero indipendente. Con la cultura si pensa e si impara a pensare forse è per questo che l’indagine culturale è giudicata una perdita di tempo e l’arte contemporanea una forma di intrattenimento per un’elite che “se la può permettere”. Ma la Piazza Jamma El Fnaa ci ha fortunatamente dimostrato il contrario.