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Qualche sera fa ero a cena con alcuni amici a Milano. Uno di loro vive ormai stabilmente da qualche anno a Berlino. Naturalmente si parlava della situazione in cui ci troviamo in Italia.
Ad un certo punto ho detto una cosa che ha colpito me per primo: la nostra storia di italiani in questo momento è tragicamente segnata dalla consapevolezza del fallimento.
Non mi riferivo a quello economico, che tutti temono e minacciano, ma quello più profondo, culturale, che riguarda la nostra identità come comunità nazionale e che anche individualmente sta segnando il senso delle ragioni esistenziali di molti di noi, compreso di quelli che vanno via.
Un’idea che ha trovato almeno in parte conferma nelle riflessioni di Gustavo Zagrebelsky apparse su La Repubblica del 5 aprile 2013, sotto il titolo “La nostra Repubblica fondata sulla cultura”. Appunto. Ne riporto qualche passaggio:
«”L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, dice l’art. 33, primo comma, della Costituzione. Questa norma di principio è da considerare la base della “costituzione culturale”, così come esiste una “costituzione politica” e una “costituzione economica”, ciascuna delle quali contribuisce, per la sua parte, alla costruzione della “tri-funzionalità” su cui si regge la società, secondo quanto già detto. La Costituzione, senza aggettivi, è la sintesi di queste costituzioni particolari […].
«Non si tratta, comunque, di teorizzare una “cultura per la cultura”, senza contenuto, come pura evasione. La cultura come cultura ha una sua funzione e una sua responsabilità sociale, come s’è detto: una funzione che esige libertà. Sotto questo aspetto, il verbo “essere” che troviamo nella norma costituzionale assume il significato non d’una definizione, ma d’una prescrizione: “la cultura deve essere libera”. La difficoltà nasce dal fatto che deve essere libera, ma non può vivere isolata.
La prima insidia, qui, sta nella tentazione della consulenza.
Il nostro mondo è sempre più ricco di consiglieri e consulenti e sempre meno d’intellettuali».
In ogni caso questo è il link grazie al quale potete leggere l’articolo per intero. Una cosa che mi sento proprio di consigliare.
Poi tanto per non farci mancare nulla, sempre in questi giorni è uscito il rapporto Eurostat su quanto i vari Paesi spendono per la cultura. Ecco qua quello che ci riguarda:
«Per l’Unesco l’Italia detiene il più alto numero al mondo di beni patrimonio dell’umanità. Un dato in controtendenza alla spesa pubblica destinata dal Paese alla cultura: appena l’1,1% del Pil contro il 2,2% medio dell’Ue e all’ultimo posto in Europa dietro anche alla disastrata Grecia che spende l’1,2% del Pil. Peggio. Siamo al penultimo posto (questa volta davanti alla Grecia) nella spesa per l’istruzione: l’8,5% Pil con il 10,9% dell’Unione europea. È quanto emerge da uno studio pubblicato da Eurostat che compara la spesa pubblica nel 2011: in cultura spendono tutti più di noi dalla Germania (1,8% del Pil) alla Francia (2,5%) fino al Regno Unito al 2,1%.».
Si avete letto bene. Dietro la Grecia nel 2011. Ma tranquilli, nel 2012 risulteremo senz’altro penultimi, visto che la Grecia intanto è praticamente fallita. Ci piace vincere facile.
Non vi basta?
Eccovi dunque un’altra notizia non meno eccitante. Nel 2012 l’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) certifica che l’emigrazione italiana è aumentata del 30%. In particolare “gli emigrati italiani tra i 20 e i 40 anni sono passati dai 27.616 del 2011 ai 35.435 del 2012.”
Più che fuga di cervelli è un si salvi chi può.
L’ultimo dato che completa il delizioso quadretto? Nel 2012 la crisi e la riforma Fornero hanno portato alla perdita di un milione di posti di lavoro in Italia. Un milione! È un aumento pari al 13,9% rispetto al 2011. Mica male come contributo tecnico del tecnico.
Adesso penserete che l’idea della consapevolezza del fallimento derivi dalla negatività di questi dati. Non è così. I risultati delle rivelazioni statistiche sono essenziali per capire l’entità della crisi che vive il nostro Paese, che è senza dubbio la più grave della sua breve storia, ma la questione di cui parlo risiede in ragioni più profonde.
Molti di noi sanno che quanto sta accadendo, e soprattutto l’evidente incapacità di reazione che stiamo dimostrando, è la conseguenza di fattori concomitanti che ha prodotto un deterioramento che ci riguarda tanto come individui quanto come collettività.
Un processo che ha naturalmente avuto inizio e successiva continuità nel degrado della scuola e dell’università. Chi ha modo d’incontrare dei ragazzi appena usciti da triennali e specialistiche sa di cosa sto parlando.
Il vuoto culturale che si è creato è stato riempito da un cinismo che impedisce di fatto quell’identità culturale di cui parla Zagrebelsky. La impedisce come fatto di massa, collettivo in senso ampissimo, come oggi è necessario in una società che dispone di un livello di informazione e di comunicazione molto alto e che grazie a questo trasforma i propri bisogni quotidiani, per lo più indotti, in identità temporanee.
Naturalmente questo stato generale della comunità influenza anche gli individui che ne percepiscono la gravità, imponendo un’incapacità che diventa rapidamente frustrazione e che a sua volta si trasforma in cinismo non dissimile da quello generale.
Senza dubbio alla politica, intesa come classe politica degli ultimi trent’anni, va addebitata la responsabilità maggiore di questo stato di cose. E la situazione di stallo in cui ci troviamo è solo la dimostrazione che il danno fatto è tanto profondo che non riusciamo ancora ad uscire dal pozzo in cui ci hanno gettato.
Ma è chiaro che possiamo e dobbiamo uscirne. Riusciremo a farlo però solo dopo che troveremo forza e argomenti per sostenere che il principio della fine ha coinciso con la perdita di ruolo e funzioni della cultura nel processo di sviluppo del Paese.
La riprogettazione del futuro parte dunque banalmente dalla trasformazione di quel 1,1 in un numero poco più grande: 1,6 o anche 1,8, come per la Germania. Ma passa nondimeno per un utilizzo di questo denaro attraverso modalità e standard europei, basati su trasparenza e meritocrazia. È semplicemente necessario a questo proposito adottare pari pari bandi e modalità di verifica in uso in Germania, Francia, Inghilterra. Non è così difficile. Stessa cosa per l’università. Riformarla significa adottare standard europei, tanto per l’organizzazione quanto per il reclutamento dei docenti.
Lo so, forse non vi sembro abbastanza cinico. Se è così, in effetti vuol dire che ho perso mezz’ora a scrivere queste quattro righe. In ogni caso era la mia mezz’ora e quindi potete facilmente immaginare la chiusa.
ho letto entrambi gli articoli,che giudico interessanti perché iniziano e tentano di circoscrivere un problema di fondo sostanziale:la radice dello sconforto attuale e come tentare di uscirne.Entrambi affidano alla cultura il compito,Zagrebelsky col la sua libertà,Gavarro con il suo potenziamento in termini economici,per metterla in breve.Entrambi hanno prospettive molto contemporanee ma il fatto è che io penso che sia proprio il pensiero contemporaneo la fonte prima della crisi e dello sconforto.Non è il maggior finanziamento,né una libertà teorica che nei fatti non è mai esistita che porteranno alla soluzione.Tanto libertà che risorse erano infinitamente inferiori ad oggi nei citati tempi di Pericle e Giulio II.La prima era una società schiavista,la seconda una monarchia assoluta fondata sulla religione.Eppure sono considerate tra le età auree della cultura e dell’arte.Erano entrambe culture del sud Europa mediterranea,mentre oggi,e da tempo,il baricentro di potere si è spostato al nord Europa,mercantile e borghese.Zagrebelsky nega il concetto di”Verità”,sostituendolo ad un vago e generico concetto di onestà.L’onestà è un concetto puramente sociale,manca la “triangolazione” ed in nome di che bisognerebbe essere onesti,culturalmente,politicamente,economicamente?In tempi di crisi economica si assiste all’incremento della tendenza opposta,piuttosto.Eppure in tempi di schiavismo gli antichi Greci non facevano che indagare sulla verità,filosoficamente,scientificamente e nel papato era ovviamente data per scontata,nel Vangelo.La Grecia antica aveva le città stato,non era una stato nazionale;era il senso di appartenenza culturale alla grecità che univa tutti i non barbari.Loro erano piuttosto orizzontali,il papato al contrario,il non plus ultra del verticismo e verticalismo.Entrambi avevano comunque una triangolazione formata da uomo,società,verità,fosse quest’ultima l’indagine su di essa o Dio.Io penso che la crisi attuale venga da lontano e se nella rivoluzione francese hanno fatto piazza pulita del trono e dell’altare,quella russa non è riuscita a fare altrettanto della borghesia,o del suo concetto.Oggi manca il terzo polo,ciascuno deve trovarselo da se.Però non sarà che negli stati nazionali borghesi e mercantili,oltre che democratici,del nord dell’Europa,c’è qualcosa che affossa l’animo e che magari non dovremmo più cercare di imitare?
Che cosa hanno da parlare o commentare,quelli che se ne vanno, questi signorini dell’arte “impegnata” che da tempo sono “scappati”?