Categorie: lavagna

LA LAVAGNA

di - 21 Marzo 2016
Se tu sei in grado di fare un murales come quello non sei “la strada”, sei l’eccellenza della strada, sei in grado di parlare e di confrontarti con chi ha un pensiero complesso, con chi genera strutture di comprensione del mondo, con chi si confronta con te per la tua idea.
Stare nella strada significa incontrare e accogliere tutti, dal tossico alla donna cannone con la barba, dalla casalinga al malato, dal bambino all’intellettuale al professore universitario, al capo di imprese ricchissime, dal poliziotto al fuggitivo. Se accetti di stare nella strada non puoi selezionare i personaggi che contribuiscono a costruire la tua immagine un po’ neorealista di individui border line, eccessivi nella loro povertà o che rientrino nel mito del povero e buono. Devi confrontarti con tutti.
Non è scontato che il tuo murales faccia nascere approvazione nel ribelle e sdegno nel direttore di banca. Magari sarà proprio il direttore di banca ad apprezzarlo di più  perché da giovane aveva lui stesso istinti ribelli e quel murales gli ricorderà la sua giovinezza. Non puoi controllare la fonte della sua emozione o il ruolo sociale che ha acquisito nella vita. Quello che hai dato alla strada resta della strada, e la strada è di tutti.
Il gesto di creare e poi cancellare un’opera di street art perché le condizioni iniziali non sussistono più, è un po’ come voler essere il demiurgo che fa e disfa quel concetto di “popolo” che un po’ romanticamente hai in testa come fruitore delle tue opere.
Conosciamo la strada per quattro anni di un lavoro performativo che ci ha portati ad avere dialoghi profondi e confronti emotivi con la gente. La prospettiva che ci si è aperta di fronte è stata proprio quella di una porzione di mondo che non frequenta i nostri abituali circuiti, che non appartiene a quella nicchia che ognuno di noi costantemente seleziona per dar forza alle proprie scelte e alla propria identità. Ci siamo trovati di fronte proprio tutti, e tutti ci hanno spiazzati con un portato di consapevolezza di sé completamente trasversale. Dovevamo cambiare linguaggio ad ogni incontro, anzi impararne di nuovi, proprio per poter entrare in dialogo con tutti. È stato un abbandonare il nostro ego per far emergere le istanze dell’altro.
Che cosa significa per te dare un’opera alla città? Perché sobbarcarsi la fatica di raggiungere la vetta di un palazzo, rischiare di cadere, assumere posizioni improbabili per ottenere quell’effetto visivo e la pregnanza di immagini che vogliano dire qualcosa? Perché dare per poi togliere? E soprattutto, perché non accettare di essere stati scelti anche da chi non approvi? Il gesto di riappropriazione del tuo murales è un dire: vi avevo fatto credere che fosse per tutti, ma i miei tutti sono ben selezionati. Sono io l’autore, sono io che ti ho creato, e come ti ho creato ti distruggo. Se fosse stato qualcun altro a cancellare quel murales, allora sarebbe stato uno scempio.
Quello  che è nato da quest’operazione comunicativa strepitosa e reiterata nel tempo della cancellazione del muro di Berlino, sono schiere di opinionisti dei social pronti ad appoggiare l’atto contro-potere del nuovo Che Guevara di turno, oppure il main stream che non si sporca le dita sulle tastiere dei social, ma che fa uscire dei ponderatissimi articoli da rivista di settore. Se guardiamo alla rete, a come in tantissimi hanno fatto rimbalzare questo nuovo giovane mito alternativo, vediamo che è un processo comunicativo poderoso quello messo in piedi da Blu e dalle sue ormai note sfumature di grigio. Forse era più coerente restare alle tag, veri sfregi sui muri per i benpensanti perché privi di un qualsiasi senso estetico. Quelle sì tendono a generare rabbia e sdegno e basta, senza possibilità di appello. Oppure altri atti dimostrativi che abbiano in sé un valore destabilizzante e anti-sociale. Nel momento in cui ci si innesta nel dibattito comune attraverso la creazione  di un’opera per tutti, a quel punto se ne deva accettare lo sviluppo e la storia. Per contro lo street artist dovrebbe dire la sua anche sui gruppi di turisti che vengono portati nei quartieri di periferia per vedere proprio i palazzi su cui campeggiano i loro interventi, un po’ come nella favelas brasiliane si guarda la miseria dalle auto blindate per fare un’esperienza di realtà. Oppure si dovrebbe insorgere se il quartiere in cui siamo intervenuti si gentrificasse, spostando quindi l’asse del benessere ad un livello superiore della scala sociale (cosa che d’altra parte Blu ha già fatto). Anche questo dovrebbe provocare sdegno o rabbia, e gli interventi dovrebbero essere cancellati. In questo modo però l’intervento dello street artist diventerebbe un marchio del disagio, un’opera che  ha senso in un quartiere che ha determinate caratteristiche di marginalità e senza possibilità di riscatto, se non seguendo un preciso schema universalmente inconoscibile.
Praticando questa strada avremmo uno street artist del super controllo, che non rinuncia per niente all’autorialità dell’opera ma ne gestisce vita e restauro come se il murales fosse fatto nella cameretta di casa sua.
Per carità, chi decide di staccare pezzi di muro per metterli dentro un museo non può certo scagliare la prima pietra! Le mani se le è sporcate in modo irreversibile e ha dimostrato scarsa, anzi scarsissima comprensione del fenomeno che pretende di spiegare. Il suo peccato però non è l’ipocrisia, per quello che cerca di fare, per il suo intento didattico o per il suo obiettivo economico, il pezzo reale ha sempre una sua pregnanza.
Andrea Penzo e Cristina Fiore diventano duo (Penzo+Fiore) nel 2009. Artisti attivi nel contemporaneo sia attraverso la produzione di opere proprie, sia mediante la realizzazione di situazioni/eventi che implichino una trasformazione del fare artistico nel contesto di riferimento. Creano, nel 2010, l’associazione Cantiere Corpo Luogo. Vivono e lavorano tra Venezia e Berlino.

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