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La lavagna

di - 31 Maggio 2016
Nel caldo pomeriggio di una domenica d’inizio estate, era il 22 maggio scorso, all’ex Dogana di Roma si è tenuta Ristart, una tavola rotonda in cui si è parlato di politiche culturali passate e prossime nella Capitale. C’erano gli scrittori Christian Raimo e Graziano Graziani, esponenti del Dal Verme, del Teatro Biblioteca del Quarticciolo e degli ex teatri di cintura, rappresentanti del Rialto e qualche superstite del Teatro Valle Occupato, tra i molti altri che non sto qui a menzionare in dettagliato elenco. Non sono mancati politici in campagna elettorale come Gianluca Peciola, Stefano Fassina, Umberto Marroni e Umberto Croppi.
Sono andato anch’io ad ascoltare, e oltre ad Alfredo Pirri e il giovane Filippo Riniolo, del mondo dell’arte non c’era nessun altro. Ma soprattutto nessuno era stato chiamato a raccontare dello stato delle arti visive a Roma. Un’assenza significativa e direi piuttosto drammatica, sulla quale credo valga la pena ragionare.
Come qualcuno ricorderà sono stato uno degli animatori della Consulta per l’Arte Contemporanea Roma, nata nel 2011 e con alterne vicende durata fino al gennaio del 2015. Un’esperienza preziosa e difficile, che ad oggi rimane l’unico tentativo di creare a Roma, e più in generale in Italia, una rete tra gli operatori dell’arte contemporanea per cercare un dialogo costruttivo con l’amministrazione.

Non sto qui a rammentare le difficoltà avute prima con l’assessora Barca e poi con Marinelli, i progetti elaborati e presentati ad entrambe e alla Commissione Cultura, ma anche quelle avute all’interno del mondo dell’arte della città, la fatica fatta nel tentare di coinvolgere i suoi vari membri, fino al momento in cui il Consiglio dei Rappresentanti, da me presieduto, si trovò praticamente da solo all’ultima assemblea prendendo atto del fallimento della Consulta e decidendo di conseguenza di dare le dimissioni. Ricordo anche che il secondo e ultimo Consiglio dei Rappresentanti fu eletto in assemblea pubblica il 2 febbraio del 2014 al Macro da circa 400 iscritti alla Consulta. Non proprio pochi, dunque. Più volte mi sono preso la responsabilità del fallimento, ritenendo che fossero stati fatti degli errori nella gestione, soprattutto per il verso del coinvolgimento degli artisti e dei diversi operatori. Ma tant’è, come si dice in casi simili, è inutile piangere sul latte versato. Quello che mi preme è però ancora una volta sottolineare la nostra incapacità ad essere presenti nel dialogo sulla cultura e sulle politiche culturali nella nostra città, a fronte dei molti problemi che affliggono ormai da quasi un decennio il nostro settore sia a livello istituzionale che per la parte che agisce da indipendente sulla scena romana.
Come forse alcuni avranno avuto modo di leggere, sempre da queste pagine ho continuato a segnalare i problemi e in generale a sollecitare risposte politiche, consapevole naturalmente che nulla ci sarebbe stato oltre il tenuissimo riverbero dell’eco delle mie parole.

Ma qui e oggi mi rivolgo invece a noi, al grande numero di persone che lavorano per l’arte contemporanea, producendo opere, mostre, cataloghi, riviste, festival, comunicazione, libri, trasporti, allestimenti, dal settore pubblico a quello privato, rivolgendoci qualche semplice domanda: va tutto bene? È questo il tipo di attenzione, sostegno e organizzazione che riteniamo giusto per il nostro settore?
Solo qualche anno fa, nel 2010, l’inaugurazione del Maxxi e della nuova ala del Macro, l’apertura di tante nuove gallerie, di cui per fortuna alcune resistono eroicamente, aveva fatto sperare in una sorta di rinascita della città, con addirittura la presenza di due fiere d’arte e un fermento che si avvertiva in maniera diffusa partendo dagli studi degli artisti, passando appunto per gallerie, fondazioni, qualche spazio no profit, associazioni e via dicendo. Cosa rimane oggi di tutta quell’energia e di quelle potenzialità? Poco, molto poco, per non dire nulla. L’arte contemporanea a Roma vive una stagione di vera e propria depressione: no fiere, gallerie ridotte per numero e capacità produttive, spazi no profit idem, molti artisti e curatori emigrati o sul punto di farlo, Macro a regime ridotto a causa delle poche risorse disponibili e con una assurda organizzazione che lo vede associato a Palazzo Braschi e Galleria Comunale, Museo Bilotti senza identità, Palazzo delle Esposizioni praticamente abbandonato, gestione perlomeno ipertrofica di Zetema, Quadriennale di Roma da scoprire con i molti dubbi a suo tempo sollevati. Senza tralasciare Maxxi e Gnam, che seppure di competenza dello Stato hanno da sempre avuto un’inevitabile ricaduta sulla comunità artistica della Capitale. Se del primo, nonostante i peccati originali, è possibile dire che stiamo assistendo ad una lenta e faticosa definizione della propria identità con la realizzazione di qualche evento espositivo finalmente degno del suo dimensionamento e del ruolo che si prefigge di avere a livello nazionale e internazionale; della seconda segnaliamo al momento la scomparsa, in attesa di capire gli esiti delle ristrutturazioni in corso e soprattutto di quale sarà il programma espositivo. A questo proposito vale la pena non dimenticare che proprio la Gnam, prima con Sandra Pinto e poi con Maria Vittoria Marini Clarelli, ha avuto un ruolo decisivo nelle dinamiche della scena dell’arte romana, ospitando mostre e opere di numerosi artisti attivi nella Capitale, diventando in certi anni un punto di riferimento per l’arte a Roma.

È vero le risorse non sono più quelle degli anni Novanta e nemmeno quelle di almeno parte degli anni Zero, ma non siamo soprattutto di fronte ad una disattenzione, per non dire abbandono, del settore da parte della politica cittadina. Non è questa la vera causa di scelte gestionali confuse e di veri e propri decadimenti, che in un paese normale farebbero gridare allo scandalo?
A questo proposito, e tanto per andare sul concreto, non sarebbe il caso di ripensare la modalità gestionale e organizzativa del Macro, restituendolo all’unicità del proprio ruolo che è quello di occuparsi di contemporaneo, magari assecondando la diversa vocazione delle sue sedi, quella di via Nizza e quella del Mattatoio? Non sarebbe ad esempio auspicabile procedere ad una differenziazione di mission tra le due, in modo da vedere più coerentemente la sede principale di via Nizza impegnata nell’esporre la collezione e nella realizzazione di mostre di artisti mid and late career, mentre quella del Testaccio potrebbe assumere una funzione più sperimentale, con progetti curatoriali e artisti delle generazioni emergenti? Tutto ciò togliendo alla Pelanda il disdicevole ruolo di spazio in affitto, con mostre più legate al costume e allo spettacolo che all’arte contemporanea, ma trasformandolo ad esempio in uno spazio di coworking locato ad artisti e creativi. Le risorse ricavate potrebbero da sole finanziare l’attività del Macro Testaccio, senza contare la rivitalizzazione di cui godrebbe il sito nel suo complesso. Un discorso che richiama alla mente la storia ormai antica e mai soddisfatta del riutilizzo degli spazi pubblici dismessi da affittare come studi, anche qui con un ritorno economico di cui c’è evidente bisogno.
Ma ancora, non sarebbe il caso in tema di accorpamenti di musei e relativa ottimizzazione delle risorse, associare al Macro il Museo Bilotti, trasformandolo in una sorta di Serpentine Galleries, valorizzando la sua posizione all’interno di Villa Borghese con la realizzazione di padiglioni architettonici temporanei variamente utilizzabili e mostre legate sempre allo specifico architettonico ambientale?
E non sarebbe anche venuto il momento di rivedere la gestione aziendale ma soprattutto espositiva del Palazzo delle Esposizioni, trovando a quest’ultimo un ruolo più definito ed efficace? Non sarebbe ad esempio immaginabile chiedere un progetto in tal senso attraverso una call pubblica? Com’è possibile non dare il giusto peso alle straordinarie potenzialità economiche di questo luogo in un momento di così forte bisogno di risorse?

Ma ancora, perché ad esempio, come per gli altri settori artistici, non ci sono bandi per la realizzazione di progetti e opere d’Arte Pubblica – e non mi riferisco solo alla Street Art ultimamente tanto amata dai nostri politici molto probabilmente per la semplicità visiva che propone – da realizzare tanto al centro che nelle famose periferie, da sempre focus dell’attenzione politica solo e unicamente nel periodo elettorale?
Il fatto è che non riusciamo a portare tutte queste questioni, e le molte altre che per brevità tralascio, all’attenzione della politica e più in generale della cittadinanza, perché semplicemente non riusciamo ad esprimerle come collettività. Oltre le ragioni delle profonde differenze tra il nostro sistema e quello delle altre arti, conseguenza di modalità elaborative e produttive individuali che sono quasi del tutto legate al sistema privato dei collezionisti e delle gallerie, da dove proviene la maggior parte delle nostre risorse, c’è anche una profonda diffidenza tra noi che c’impedisce di condividere non tanto il lavoro, ovviamente, ma appunto le condizioni generali, strutturali e organizzative, nelle quali operiamo. Per molti versi, e paradossalmente proprio noi, siamo in questo senso per nulla contemporanei, comportandoci come se vivessimo nel mondo dell’arte di più di trent’anni fa, ostinatamente individualizzato e con l’assurda paura che riconoscerci come collettività equivalga a sindacalizzarci. Quando di contro il sistema dell’arte internazionale è basato su una sinergia pianificata tra pubblico e privato e soprattutto su una consapevolezza del ruolo dell’arte nell’ambito sociale ed economico, che poggia sulle fondamenta di una collettività dell’arte che si riconosce e agisce come tale. Certo, cultura del contemporaneo in generale e cultura politica relativa, hanno reso in altri luoghi questo processo naturale, ma questo non significa che da noi tutto questo non sia possibile e soprattutto necessario.
Raffaele Gavarro

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