13 giugno 2013

La Lavagna

 
di Raffaele Gavarro
In margine alla "Grande Bellezza", la nostra cultura, la Biennale di Venezia e il Padiglione Italia

di

Lo so, state pensando che stavolta ho esagerato: troppa carne al fuoco, troppi argomenti tutti insieme, che poi in fondo alcuni non c’entrano mica tanto con altri. Il fatto è che sono giorni che rifletto su queste cose senza soluzione di continuità, passando dall’una all’altra attraverso impreviste connessioni. Magari sbaglio. Comunque sia, tutto è iniziato con il film di Paolo Sorrentino. Guardandolo ho avvertito un grande dolore, un sentimento che non mi capitava di provare da molto tempo di fronte ad un film. Soprattutto ho sentito che la mia sofferenza corrispondeva a quella provata in modo altrettanto sincero dal regista e anche dal protagonista del film Jep Gambardella, alias Toni Servillo. Mi ha commosso profondamente quell’umanità sfracellata, priva di qualsiasi speranza nel futuro e per la quale nemmeno la memoria del passato è in grado di offrire un minimo di sollievo. 
Toni Servillo e Paolo Sorrentino
Molti hanno parlato della decadenza di Roma tra salotti e terrazze, dello squallore di gente persa tra alcolici, gossip e banalità, che si spara strisce e balla facendo “trenini che non portano da nessuna parte”. Ma a chi è capitato di stare in situazioni simili in altre città italiane e non, sa che tutto il mondo è paese e che Roma non è in queste situazioni molto diversa dagli altri luoghi. 
Io, come Servillo e Sorrentino, non sono romano, e mi porto dietro il peccato originale di arrivare dalla provincia, tra l’altro da quella peggiore, e verso questa città ho sempre avuto uno sguardo meravigliato, incantato dalla bellezza e dalla miseria che vi convivono. Credo qualcosa di simile a quello che ha provato e che ha voluto raccontare Sorrentino. 
Ma bellezza e miseria di Roma, come delle persone che stando sulle terrazze pensano di averla in mano e sotto i piedi, è solo lo strato superficiale del film, l’inganno narrativo da superare per cogliere il senso vero di questo racconto, e cioè che questo è un film sulla fine, sul sentimento della fine, o meglio e se preferite, sulla morte. E per questo tema, vi assicuro, non c’è location al mondo migliore di questa città. La morte è il senso intimo, il segreto profondo di Roma, la fonte irresistibile della sua bellezza. Jep sogna ad occhi aperti il mare della sua giovinezza proiettato sul soffitto della sua casa e rivede quella ragazza che ha amato e che c’era prima che tutto si compisse, prima che il successo del suo romanzo lo portasse sulle terrazze della capitale da dove non sarebbe più sceso e da dove i fenicotteri invece partono spinti dal soffio di una vecchia suora-santa sdentata. Tutto il film è un sogno ad occhi aperti sulla morte – ricordate che il film inizia praticamente con la scena del giapponese che muore sul Gianicolo e che altri personaggi nel corso del film muoiono e che anche lei, la lei del ricordo di Jep, è morta – e sulle inevitabili domande a cui costringe. 
Il Palazzo Enciclopedico, Venezia, Giardini-Arsenale 55ma Biennale di Venezia 2013
“La grande bellezza” più che di Roma ci parla di noi, della nostra fragile umanità in questo tempo, e non secondariamente attraverso le immagini della Capitale racconta dello stato di tutto un paese.
Perché, nonostante le dichiarazioni del Presidente del Consiglio di turno, questo è una nazione che sta vivendo un drammatico atto finale. Non riconoscerlo forse è un problema maggiore del problema. Sorrentino ce lo mostra e la sua opera assume una straordinaria forza simbolica, come nella migliore tradizione del cinema italiano. Il successo di pubblico che sta avendo il film e le discussioni che sta suscitando, dimostrano che la consapevolezza della gravità del momento è più diffusa di quello che traspare dai talk show televisivi. Viviamo in un paese sfinito dalla pervicacia con cui si sono sistematicamente neutralizzate le cose migliori, le persone migliori, in molti casi fisicamente eliminate o costrette ad andare via; in cui la politica ha prodotto un sistema di degrado e di controllo di tutta la società, dal sistema economico a quello scolastico-universitario e culturale, che ha stretto patti con poteri invisibili e illegali fino a quello inimmaginabile con la mafia. Viviamo il momento in cui si devono fare i conti e questi inesorabilmente non tornano, non possono tornare. Siamo nella situazione tragica in cui non possiamo rispondere alla crisi economica facendo leva sulle nostre qualità, perché queste ultime sono state avvilite, disperse, ritenute secondarie e adesso, purtroppo, appaiono tragicamente irrecuperabili. Jep Gambardella è un italiano consapevole dello spreco che si è fatto, a cui lui stesso ha contribuito e che pure mostra una possibilità di redenzione solo grazie alla sua profonda umanità, qualcosa che appare come la presa di coscienza che precede il riscatto, anche se per quest’ultimo non c’è certezza.
Massimiliano Gioni
Qualcosa di tutti questi sentimenti contrastanti traspaiono anche dalla Biennale di Massimiliano Gioni, ma non incredibilmente dal nostro padiglione nazionale, che pure avrebbe dovuto parlarci di noi oggi. Sono davvero rimasto sorpreso dal lavoro di Gioni. Attraverso dichiarazioni e anticipazioni mi ero fatto una certa idea, ma quello che ho visto è stato molto di più. L’idea di lavorare cominciando da una parte da Jung e Steiner e dall’altra da un’idea folle, utopica, quanto dilettantesca di un sapere enciclopedico e di un luogo atto a contenerlo, immaginato dall’ormai famoso Auriti, ha portato alla costruzione di un percorso esperienziale piuttosto sorprendente. Un percorso in cui emerge tutta l’incertezza che ci arriva dal passato, che si affianca alla difficoltà di dare un senso univoco al presente e di immaginare il futuro in modo lineare. Magia, visionarietà, follia accanto a razionalità estrema, improvvisazioni e progettazioni che si alternano e che liberano, anche con una certa furbizia, l’arte dai tipici luoghi comuni del sistema dell’arte, dal quale Gioni e tutti noi non siamo, ne potremmo mai, essere estranei. Ma Gioni dimostra che il blocco sistema è tutt’altro che impermeabile e tutt’altro che autosufficiente. E questo è un bene, perché darà coraggio e slancio a molte ipotesi e tentativi in questo senso. In più aggiungo che Gioni oltre ad aver assorbito il senso di quella cultura americana, e più in generale anglosassone, per la quale il dilettantismo come la cultura underground sono un giacimento di risorse inesauribili, rimane molto italiano. E come italiano è consapevole dello spreco che si è fatto nel nostro paese, a cui contrappone la grande capacità degli “altri” di utilizzare anche il marginale, cercando in esso quel buono che noi non troviamo nemmeno nel centrale conclamato come tale, anche quando è indicato dagli “altri”. 
Francesca Grilli-Viceversa, Padiglione Italia.
Ecco di tutto ciò, delle incertezze, dell’utopia, della sofferenza per lo spreco e dell’eroico quanto vano tentativo di indicare una via alternativa, non c’è traccia nel nostro padiglione, che invece si presenta retorico, monumentale, con la pretesa di parlare ad un paese accartocciato su stesso attraverso opere sfacciatamente fuori misura anche economica. Tutto ciò è accompagnato da un evidente malfunzionamento del meccanismo dei dialoghi, che pone a disagio più di qualche artista vivo e morto. Non saprei dire se è stato malinteso il pensiero di Agamben dei “concetti polarmente coniugati”, ma sta di fatto che la sua resa sotto forma di coppie di artisti appare semplicistica e in alcuni casi del tutto priva di senso. 
Così man mano che passavano i giorni e continuavo a pensare ostinatamente a tutte queste cose insieme, mi sono convinto che anche il buon vecchio Jep Gambardella si sarebbe sentito a suo agio camminando tra le sale ordinate e affollate di Gioni. Ne avrebbe assorbito il coraggio di prendersi dei rischi, quel sentimento che precede sempre il riscatto, anche se per quest’ultimo continua a non esserci certezza ma solo speranza. 

7 Commenti

  1. A mio parere non c’è nulla da fare, l’artista (che sia INSIDER o OUTSIDER) è debole e anacronisctico, per come comunemente inteso. Questo anacronismo è ben più forte in Italia, dove c’è quindi la possibilità di fare qualcosa. Ma per fare qualcosa non si devono fare passi avanti ma passi indietro.

    E invece questi eventi vorrebbero riaffermare un ruolo di artista anacronistico, che parla con un altro artista (più conosciuto) dentro ad un museo e sponsorizzato da una fondazione. Oggi è il contorno e il curatore che prevalgono e fanno l’artista e l’opera. Guardiamo il Leone d’oro Tino Sehgal è l’esempio estremo di questo. Non ci sono didascalie, non c’è documentazione, l’opera esiste solo in ragione di pubbliche relazioni e luoghi (place+rays=..plays-..)

    Guardiamo il Padiglione Italia 15 curatori per 12 artisti viventi e come architetto la moglie del curatore. Guardiamo la Biennale di Gioni: si parla solo del progetto di Gioni, le opere si perdono come sfumature che prese singolarmente non hanno alcune forza. L’artista sembra solo e solamente Gioni con una grande installazione.

    L’artista comunemente inteso deve fare un passo indietro e diventare uno “spettatore che precipita”, come sto facendo io da quattro anni. Uno spettatore attento, che semmai tiene un blog, che cerca di porsi domande, che cerca un rapporto con un pubblico sempre più assente, che cerca di stimolare un confronto sulle opere che è inesistente. Vi invito a questo dialogo per approfondire meglio: http://whlr.blogspot.it/

    Dopo gli anni 90, vediamo un istituzionalizzazione e un professionismo del ruolo di artista. A questo fatto bisogna aggiungere sovraproduzione di opere e saturazione del linguaggio. E non esistono barriere all’entrata nè per fare nè per comunicare il proprio lavoro. Io posso chiudermi in questa stanza, fotografare, fare un portfolio e comunicarlo al mondo via internet. E divento l’ennesimo artista. Questo ha paradossalmente depotenziato il ruolo di artista: servono altre figure, come il curatore, per caricare di ragioni, motivazioni e valore l’opera. Mi sembra significativo che Tino Sehgal abbia vinto il Leone d’oro. Un lavoro molto significativo che esiste solo in ragione del sostegno di luoghi (place) e pubbliche relazioni (rays), e che è fatto realmente di una materia fatta di luogo e pubbliche relazioni.

    Ripsetto a questa ammucchiata di opere e progetti, dove tutti vogliono fare l’artista e non c’è un pubblico vero, l’artista deve buttarsi (in prospettiva suicidarsi) e precipitare, diventando appunto uno spettatore che precipita. In questo modo riesce a bypassare un sistema debole vestendo tutti i ruoli del sistema. In Italia gli artisti sono deboli perchè il sistema è debole e immaturo da 20 anni.

    Credo che una progettualità concreta, che discende da questo ruolo di “spettatore che precipita”, stia nell’opera “Ship for two japanese” presentata a questa Biennale davanti al Padiglione dei Paesi Nordici: http://whlr.blogspot.it/2013/04/a-ship-for-two-japanese.html

  2. Caro Raffaele,
    condiviso le tue osservazioni, e anche il drammatica chiusa. Forse abbiamo toccato il fondo, è vero, ma la nostra storia dell’arte (che, diceva luciano Fabro, è l’unica storia d’Italia) ci ricorda tutti i giorni con monumenti che non hanno pari al mondo, quello che siamo stati per secoli, anche nei momenti più bui. Loro sono lì, non li abbiamo distrutti, ed è grazie a loro che ogni giorno migliaia di turisti si riversano nelle nostre città, e non solo quelle d’arte. In fondo è la nostra unica, vera risorsa che il mondo ancora ci riconosce. E allora, perchè non si riparte da lì? E’ presto detto, ai nostri politici la cultura non ha mai interessato, tantomeno adesso. Balotelli nell’Italia del 2013 è molto, molto più popolare di Pasolini, Dante o Leonardo da Vinci, nonostante Dan Brown. Se Enrico Letta ha definito il rito nell’abbazia di Spineto (gioiello del romanico toscano dell’XI secolo) “fare spogliatoio” vuol dire molto. Se Marino per essere popolare deve dire alla folla “Daje” vuol dire tanto. Ricordi che negli anni Settanta si diceva del sottosviluppato Brasile “terra di puttane e calciatori” ora le cose si sono invertite: il Brasile d’Europa siamo noi, “terra di puttane e calciatori”. Per risalire si può soltanto puntare sul rilancio della cultura, non come tutela ma come veicolo di innovazione.

  3. Caro Ludovico, terra di puttane (o meglio di escort) lo siamo di sicuro, ma di calciatori molto meno. Siamo ottavi nella classifica mondiale della Fifa, mentre nelle competizioni internazionali per club veniamo abbondantemente dopo Germania, Spagna, Inghilterra e Francia. Ma a parte l’ormai perduta gloria del calcio, la questione che riguarda davvero l’arte ma anche la cultura in generale ha a che fare con una domanda che dobbiamo farci ora: a che serviamo? Il nostro lavoro è utile e in che modo al tempo e al luogo in cui siamo? Domande che sono collegate e dipendenti da quelle solo apparentemente più complesse che chiedono cosa sia l’arte oggi e quale il suo ruolo.
    Citi l’arte del passato, a cui se vuoi aggiungo il paesaggio. È vero, si tratta di risorse straordinarie, che come sai bene garantiscono una parte non così secondaria della nostra economia, ma che stanno visibilmente e inesorabilmente degradando. E se quello che è una risorsa reale non viene stimata e valorizzata nella maniera che è necessaria, cosa possiamo attenderci noi? Nulla. Come infatti è. Guardando i numeri sui bilanci del Mef e del Mibac si fanno scoperte interessanti, di cui qualcosa ho riportato nella mia pagina FB – ma sui quali cercherò di scrivere su queste pagine in modo più completo quanto prima – e cioè che se le risorse per la cultura sono in generale in costante calo, per l’arte contemporanea spesso trovi caselle vuote nelle tabelle. Senza alcuna cifra. ZERO.
    Ecco tanto per non farla troppo lunga, io credo che solo se sapremo farci le domande giuste e soprattutto darci le risposte necessarie torneremo ad essere utili e ad avere un ruolo nel nostro paese e nel mondo. In un momento di tale gravità, spero davvero chiara per tutti, non possiamo sottrarci a questo tipo di riflessioni, da cui le soluzioni sono imprescindibili.

  4. Non si può pretendere di più da questa biennale di artisti addomesticati al potere curatoriale di turno…, da coloro che hanno un potere enciclopedico…

  5. Caro Raffaele, ho letto con piacere le tue riflessioni che condivido in pieno. Sono andata a vedere il film di Sorrentino da sola corca una settimana fa cercando di non farmi influenzare dalla mole di plausi e di critiche che, dalla sua uscita in sala, ho letto e ascoltato…è stata un’esperienza piuttosto forte perchè anche io ho avvertito fortissimo, e fin dall’inizio, il senso di morte che aleggia per tutta la durata della proiezione. Jep è un cinico disilluso che non può più fare a meno di partecipare a dei riti che ormai annoiano anche lui, che riesce a trovare un pò di verità solo nel tragico e fugace raporto con Ramona, una Ferilli in stato di grazia, forse ancora più disillusa di lui ma ancora capace di stupirsi davanti alla bellezza. E’ vero non siamo più un popolo di calciatori forse solo di puttane, con tutto il rispetto per un lavoro che reputo socialmente utile e per il quale, se non fossimo un paese finto cattolico, auspicherei una regolamentazione come quella dei paesi bassi. Che dire caro Raffaele e caro Ludivico, gli errori si pagano e tutti quelli macroscopici commessi da circa 50 anni dai nostri ciechi politici oggi li paghiamo con lacrime e sangue. Gli ultimi 20 anni sono poi stati addirittura osceni moralmente, intellettualmente ed esteticamente e il risultato lo abbiamo sotto gli occhi, la volgarità è diventata un modo di essere e l’educazione una lampante prova di debolezza…tutto sbagliato…come si può costruire qualcosa in un paese dove vince chi è più ladro o più furbo o più puttano?…Per quanto riguarda la Biennale di Gioni a me è piaciuta moltissimo, come tu ben sai, l’ho trovata perfetta per descrivere questo nostro particolare momento storico e ho sentito aleggiare anche li, specialmente all’arsenale, un senso di morte, di fine, di punto di non ritorno. Ho amato la follia di Gioni che ha fatto dell’ossessione il fulcro della sua ricerca estetica e mi sono persa nella follia dei tanti che hanno passato la vita a disegnare architetture fantastiche, case di bambola, inquietanti bambole dall’aspetto pre-adolescenziale, diari, collezioni, feticci, memorabilia, riti voodo e disegni fatti in stato di trance. Forse il positivismo, il cartesianesimo sono davvero modelli non più in grado di fornire certezze e da sempre gli esseri umani si sono rifugiati nell’irrazionale per dare un senso a un presente che il senso lo ha perso.

  6. Il film di Sorrentino è illustrativo
    e descrittivo, ma comunque mette in mostra la decadenza dell’occidente ormai irreversibile.
    Nonostante ciò l’arte contemporanea continua a
    vivere all’interno dello stesso paradigma
    che si sta disfacendo. E la Biennale di quest’anno non fa eccezione. Pervasa da un senso
    di vuoto,di nulla, dove emerge solamente
    l’enfasi della burocratizzazione.

  7. Credo che “La grande bellezza” sia un ottimo film per gli standard italiani e che descriva bene il momento che il paese sta attraversando, anche se forse è un po’ di maniera e didascalico rispetto ad altri lavori dello stesso Sorrentino. Trovo che anche il Padiglione Italia sia molto in linea con il nostro tempo: ci sono rovine (Bartolini) e miserie (il blocco con l’oro da grattare di Golia), c’è l’ironia amara di Xhafa, la commozione a cui spingono i mattoni di Elisabetta Benassi, l’immaginario collettivo e la nostalgia di Favelli… E poi i punti di vista sempre validi di Ghirri e Mauri. Liquidare tutto così, in poche righe, non rende giustizia alla bravura dei nostri artisti, a cui viene finalmente data l’opportunità di mettersi in luce! Non capisco poi il discorso sulla sproporzione economica e sulle opere “fuori scala”: siamo alla Biennale, mica alla mostra della parrocchia! Anche il lavoro di Anri Sala è monumentale, ma è probabilmente uno dei migliori visti in tutti i giardini.

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