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La lavagna

di - 27 Settembre 2013
Ha la leggerezza ironica del miglior De Sica, la visionarietà di Fellini, il piglio socio antropologico di Moretti, la cruda amarezza di Pasolini, l’apparente casualità narrativa di Garrone. Dicono che sia un documentario, ma in realtà è un film di indubbia qualità e di dolorosa poesia, che Bernardo Bertolucci ha giustamente premiato con il massimo riconoscimento che il cinema italiano può conferire oggi, il Leone d’Oro al Festival di Venezia. E così il documentarista Gianfranco Rosi, che ha percorso in lungo e in largo il Grande Raccordo Anulare per due anni interi, con il suo Sacro Gra è riuscito, meglio di quanto abbia fatto Sorrentino con la sua Grande Bellezza, a entrare nell’animo più profondo della nostra Italia, un Paese sfinito e depresso, senza sbrodolarsi addosso né appiccicare ad una povera sceneggiatura cucita addosso al grande Toni Servillo citazioni e visioni che non fanno altro che appesantire e rendere indigesta una  storia che aveva tutte le possibilità di essere un grande film sulla Roma di oggi. Ma Rosi l’ha superato in curva (siamo pur sempre sul GRA, dopotutto), ha rinunciato con coraggio e maestria a divi e icone del telecinema tricolore per filmare la realtà quotidiana della gente comune, al di là della politica, del glamour e di divismi patetici e artificiali.

Nessuna introduzione, nessuna vis narrativa, ma il felice montaggio di Jacopo Quadri rendono Sacro Gra un puntuale esempio di cinema contemporaneo, capace di cogliere personaggi e storie dalla strada e trasformarle in interpreti dello Zeitgeist del nostro tempo: la passione cieca e alienante dello studioso delle palme, una sorta di amanuense del terzo millennio, il kitsch disperato e patetico del castello in stile cafonal del presunto nobile con tanto di moglie moldava e figlia isterica, il linguaggio forbito e ottocentesco nel vero principe ridotto a vivere in un’unica stanza di un condominio di periferia insieme alla figlia inebetita dai social network, la generosità dell’infermiere sulle ambulanze, che vive da solo e chatta con donne sole come lui ma si occupa con un tenerezza infinita della madre centenaria. E poi, le prostitute anziane che mangiano un panino sul camper parcheggiato sul ciglio di uno slargo e quelle giovani, ma assai meno dignitose, che ballano sul tavolo di uno squallido bar sul GRA, simbolo indelebile dell’Italia berlusconiana, che si appassiona per i derby, sogna escort coperte di tatuaggi e disprezza la cultura, inutile fardello di pochi disadattati non in linea con la marketing life degli anni Duemila.

Ma Rosi guarda al di là, coglie il ritmo dei Dardenne e non ha paura di rendere protagonista del film anche la neve che cade su una capitale sporca e slabbrata, più simile alla Sofia degli anni Novanta che alla New York degli Ottanta. Ma il più vero, il più struggente, il più intenso di questi straordinari “attori per caso” è l’anguillaro e sua moglie ucraina, che pescano anguille e vivono in un barcone sul Tevere, sotto a un cavalcavia. Lui e lei hanno la grandezza del neorealismo, e ci raccontano la grande bellezza (quella autentica!) di un popolo che era capace di far sognare il mondo, ed ora ne è diventato lo zimbello. Forza Rosi!

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  • ecco la critica che mi piace!Scritta bene ma sintetica,,che prende posizione,che spiega le cose ed identifica i riferimenti,poetica...;come la intendeva Oscar Wilde,per intenderci.

  • Un gran bel film! Lo sai che l'anguillaro é stato uno dei pochi a non andare a Venezia. Erano i giorni della pesca perfetta alll'anguilla!

  • Il film di Rosi non mi ha conquistato: il suo ostentato realismo finisce per essere affettato, mentre lo sguardo sui personaggi appare paternalistico e buonista. La ricerca antropologica è tutt'altro che partecipante, piuttosto autoindulgente e compiaciuta per aver sperimentato una "diversità" che non si comprende fino in fondo.
    Non condivido, allo stesso modo, l'approccio critico a "La grande bellezza", film molto ambizioso, ma nel contempo incredibilmente autentico. La tiepida (quando non fredda) accoglienza che molta critica (soprattutto italiana) ha riservato all'ultima fatica di Sorrentino dimostra quanto scomodi e accidentati siano i percorsi di senso lungo i quali il regista napoletano ha deciso di avventurarsi. Gli ambienti intellettuali del nostro Paese hanno probabilmente bollato come "pretenzioso" il lavoro di Sorrentino perché messi di fronte ad uno specchio che non rifletteva l'immagine desiderata. Il realismo crudo, cinico e spietato del Garrone di "Reality" era stato in qualche modo tollerato perché colpiva il "popolo", la "massa". "La grande bellezza" non risparmia le élite, per questo motivo il film non riesce ad essere ben digerito neppure dal pubblico per il quale è stato girato. L'amorevole disappunto di Sorrentino (che ricorda la bella intervista di Simonetta Fiori al professor Asor Rosa, pubblicata da Laterza con il titolo "Il grande silenzio" nel 2009) è stato percepito come un pugno diretto al volto da quell'aristocrazia compiaciuta e invischiata nei rituali mondani, sinceramente interessata a mantenere in vita l'equazione che associa la cultura a un insignificante e innocuo passatempo.

  • Non mi pare pertinente il paragone con la grande bellezza che e' una giusta e penetrante rappresentazione di una classe dirigente intellettuale assolutamente fallita ma piena di se', disposta a tutto per ambizione e farisaica nei propri valori....una frustata ai vertici della chiesa e ai vertici della cultura.....0

  • boh. sono senza parole. letteralmente. da ormai più di 10 anni sembra che si siano davvero rincoglioniti tutti completamente. ma tutti prorpio. compresi quelli che, una volta, i film, li sapevano fare (vedi Sokurov..). qui siamo siamo di fronte a una cosa abbastanza apprezzabile, si, va bene, ma il LEONE D'ORO, ma stiamo scherzando? il livello è crollato proprio del tutto. verticalmente. basta guardare i premi coi dadi degli ultimi anni (anche se, ahimè, tocca riconoscerlo: il livello, spesso anche di quelli che NON vincono, è ormai sempre più imbarazzante) ..boh

  • ma ricorda qualcuno come erano i film belli una volta? questo strano documentario è di una noiosità inconsueta. non è come pensavo una raccolta di situazioni/immagini reali prese quasi di nascosto, ma una sequela di momenti ricostruiti con non capisco con quale intento. noia noia noia. per me il cinema è altro!

  • per quanto riguarda invece la grande bellezza ritengo non sia all'altezza delle altre egregie opere di sorrentino anche se vedibile, ma quello che più mi imbarazza è il quasi unanime apprezzamento di servillo che è un modesto attore dal misterioso successo, ha sempre lo stesso sguardo, la stessa espressione e la stessa postura da guappo. l'unico film dove era diverso è stato quello su andreotti dove finalmente di diverso aveva almeno le orecchie

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