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La lavagna

di - 14 Novembre 2013
Il giudizio sulle fiere imbarazza, perché pone in primo piano una domanda che non vorremo né fare né ricevere: l’arte è per i ricchi? O per i ricchi e i poveri?
Girando per Artissima ho tentato di eludere questa domanda, ho guardato le opere, le mostre collaterali, ho ascoltato conferenze, assegnazioni di premi. Ma poi alla sera, cenando e chiacchierando  il sogno dell’arte indipendente e l’idea  del mercato come complemento necessario, che lascia intatto il valore intrinseco, sono andati a farsi benedire.
L’arte contemporanea oggi è per i ricchi. Una specie di sorella della finanza che offre buoni investimenti, status sociale e partite di giro che consentono di ridurre le tasse. Come mi raccontava un “amico americano”, l’artista e critico Bill Claps, presente anche sull’attuale numero di Exibart on paper. Succede anche in America perché le donazioni vengono dedotte dalle tasse, perchè  anche chi le opere se le tiene trova un vantaggio.  Può accumulare valore comprando molte opere a poco e poi influire su gallerie e case d’asta perché seguano quell’artista e, quando i valori si alzano a sufficienza, scambiare una delle sue opere comprate a poco prezzo con altre. I valori cambiano di mano e le tasse si riducono. “L’amico americano” mi diceva che negli USA stanno attenti a ridurre le tasse. E ha aggiunto è un mercato «senza regole, dove si può guadagnare in tanti modi, come nella finanza».

Ma noi abbiamo nel DNA l’idea che l’arte è anche per i poveri che la vedevano quotidianamente nelle chiese. Poi a casa dei principi ci andava solo l’aristocrazia, ma la Cappella Sistina era per tutti. Ci siamo trascinati questa utopia della sacralità laica dell’arte. E io ci credo ancora. Ma é più facile riconoscerla se si guarda al Rinascimento o al Medioevo che all’oggi. Quei ricchi e potenti sono così lontani da essere diventati dei “parenti” simbolici. Con i contemporanei questa distanza non è accorciabile.
Tutti possono pagare un biglietto per andare alle fiere, domandare il prezzo e anche trattarlo, ma poi a comprare sono pochi. Diceva Massimo Troisi nel film Ricomincio da tre: «a scrivere sono in milioni, a leggere sono da solo». Ecco, a guardare sono milioni, a comprare sono pochi.
In una fiera questa contraddizione è sotto gli occhi, e allora come si deve aggiornare il giudizio sull’opera nel momento in cui non è realistico scinderla dal valore “finanziario”? Viene in mente un parallelo acido: come la globalizzazione ha spostato le decisioni dalla politica alla finanza, così il riconoscimento critico dell’arte passa dal valore culturale a quello finanziario. I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Non si può far nulla?
Si potrebbe utilizzare questo surplus della finanza dell’arte per ristabilire una parentela tra i visitatori medievali, rinascimentali delle chiese e quelli attuali dei musei. Insomma qualcosa dovrebbe ricadere anche nei luoghi dove non si compra l’arte, ma la si conosce, la si studia, la si comunica. I Medici  hanno costruito Firenze, le proprie dimore, le proprie tombe, ma il Battistero di Brunelleschi era condiviso con i cittadini.

Può sembrare irreale perché la proprietà privata è privata, ma  anche oggi chi possiede l’arte ha bisogno di una credibilità non  solo economica.
Le fiere sono  un mercato privato ma hanno bisogno di una condivisione culturale (tra l’altro Artissima é sostenuta dal Comune), come testimoniano conferenze, premi, visite guidate con tanto di mediatori culturali che spiegano, raccontano a chi sa e a chi ancora non sa nulla. Sotto sotto c’è il modello di una mostra pubblica dove in più ci sono i prezzi. In un museo, nelle biennali, non sono scritti in chiaro, anche se sono luoghi importanti per prendere contatto con collezionisti e galleristi.
Detto tutto questo non riesco a decidere se l’arte oggi è per i ricchi o No. Io so che tutti possono appropriarsi di un’opera senza comprarla, e questo è per me il valore vero, la sua indipendenza, la sua capacità di rivoluzione. Ma so anche che il valore economico non è un optional e non voglio relegarlo in una sfera separata per sentirmi libera. L’arte mi permette di pensare e di oppormi, ma perché questa percezione appartenga a tutti ci deve essere un luogo terzo dove il mercato sia uno dei termini di confronto e non la base di partenza. Non devo fraintendere. Alle fiere traggo informazioni guidate dal mercato, non mi scandalizza, posso decidere se sono d’accordo con le sue gerarchie. Fino a che punto il valore economico influenza il mio giudizio? Fino a che punto riesco a scindere lo scatto di intuizione che prendo dall’opera dal suo potere economico? L’arte ha potere e il potere affascina.
A me piacerebbe che prevalesse il potere di dar parola a chi guarda, ma “l’amico americano” mi ha messo in guardia dal peccato di ingenuità. L’arte è anche ingenua, ma è una scelta volontaria, è per questo che induce chi la guarda a riconoscere la propria ingenuità. Durante il Concilio di Trento era stato istituito il “peccato di novità” per gli artisti che non seguivano l’iconografia. L’arte che fa parlare pecca sempre di novità, in qualunque epoca sia stata fatta.

Allora chi pecca ad Artissima e dintorni? Pochi. Dipende dal sistema dell’arte che si alimenta al proprio interno? Può darsi e questo è nuovo e allarmante, perché saremmo costretti ad accettare che l’appartenenza al sistema è più importante dell’urto di cambiamento che da sempre è dirimente nella storia dell’arte. Il grande campione simbolico è Picasso.
A questo proposito ho visto dentro e fuori Artissima, e a One Torino, una specie di malinconia concettuale che attraversa le recenti generazioni in tutto il mondo. Come se masticassero e rimasticassero quelle suggestioni e non fossero in grado, o non volessero, digerirle per proporre altro. Sempre nelle discussioni notturne un’amica artista mi ha detto «ma noi abbiamo studiato quelle opere  a scuola, nelle accademie, non per contrapporci ma per dargli valore». E se il sistema si autoalimenta non serve un cambiamento. Tanto anche di fronte a una radicale novità, l’attuale intreccio tra  arte – finanza è veloce ad inglobarla.
È vero. Ma io credo che questa malinconia concettuale sia il sintomo di una crisi che va oltre l’arte. La ribellione non ha più un baricentro ideale collettivo, anche se nessuno è felice. Tutto precipita nell’ansia individuale, lo sforzo di resistere è enorme, e la nostalgia per l’arte altrui, cioè di chi ha partecipato attivamente a mettere in scacco gli accademismi, affascina ancora. Meglio continuare a masticarla. Non mette più a rischio il sistema, anzi lo consolida e allora perché allontanarsene?

Vale solo per l’arte? No. Tutti hanno a cuore i diritti civili, l’intelligenza, la ricerca. Ma non si sa come cambiare il mondo, e quindi il mondo ci cambia o meglio ci rende passivi. Indignazione, occupy, bene comune: parole, parole, parole che vengono velocemente riassettate dentro il sistema. Eppure, il sistema è agli sgoccioli. La disparità cova come una lava incandescente. Fino a quando resterà incuneata sotto il vulcano? La grande responsabile è la crisi economica, però chi l’ha provocata sembra inamovibile.  Così, non solo nell’arte, si continua a masticare il già conosciuto. In attesa di … ? Non saprei. Preferisco pensare all’arte che mi fa parlare.
Dentro  la fiera ho visto Elisa Sighicelli con le sue nuove fotografie dove regna la trasparenza, Marzia Migliora che con il disegno ci mostra il mondo, Thomas Saraceno che continua a indicare che dietro il mondo visibile c’è spazio di pensiero, di immaginazione, di ricerca da fare e non solo da masticare. Gabriel Kuri, che trasforma oggetti quotidiani (frigorifero e lampade) in una scultura che illumina e conserva il tempo e la vita. Regina Galindo che resiste a una scavatrice che svuota la terra attorno a lei. Solo a lei?
Fuori mi sono riambientata alla Fondazione Merz, Alfredo Jaar con decisione ci ricorda che Abbiamo Amato Tanto la Rivoluzione. Abbiamo anche molto sofferto, il golpe in Cile è una ferita insanabile. Ricordarla oggi, a distanza, con rispetto, con prudenza, restituisce una passione reale contro la violenza. Eravamo tanti a pensare che la morte di Allende era la morte di tutti. E Alfredo ha scelto di elaborarla con Mario Merz, Pier Paolo Pasolini, Antonio Gramsci, Giuseppe Ungaretti, Kosuth, Valie Export, Nancy Spero, Gerhard Richter, Fabio Mauri, Giuseppe Penone, Piero Manzoni, Yves Klein, Alighiero Boetti, Hans Haacke, Lawrence Wiener, On Kawara, Cildo Meireles, Luis Camnitzer, Michelangelo Pistoletto, Yoko Ono.

Alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo ci sono bellissimi arazzi che raccontano un linguaggio che affonda nei secoli e che ancora oggi ci parla del fascino materiale dell’arte. Molti provengono dalla collezione. Kentridge, Vezzoli, Trockel, Zittel, Pae White e Noa Eskol che crea degli arazzi con resti di tessuti  per compensare il tempo dello Yom Kippur, la guerra del ’73 in Israele.
E ho ritrovato parola al Castello di Rivoli con Marinella Senatore che, oltre alle figure dell’arte, predispone una partecipazione diretta, viva, reale a chi l’arte non la compra, ma la ama e la usa per fare e imparare cose insieme a coloro che vivono accanto, a coloro che creano comunità. Sarebbe piaciuta ad Adriano Olivetti. Ma Rivoli soffre, cosa dobbiamo aspettare perché gli vengano date le possibilità di fare il suo mestiere e mostrare a ricchi e poveri l’arte che c’è e quella che verrà?
Se non si fa questo, allora rassegniamoci a essere dei peones alle grand bouffe dell’arte contemporanea, separati dal vetro della disparità economica che poi si traduce in disparità culturale.
Nella Storia di Venezia nella vita privata di Pompeo Molmenti (1880), c’è un aneddoto che potrebbe diventare la metafora dei partecipanti all’arte contemporanea. Alla Villa Pisani di Stra, una delle più prestigiose Ville Venete, costruita  nel 1700 come una specie di Versailles, durante i banchetti estivi per evitare che gli ospiti fossero tormentati dalle zanzare esponevano sui davanzali dei contadinelli  con le brache abbassate, così le zanzare trovavano un pasto immediato nei loro culetti e in cambio quei bambini portavano a casa un po’ di cibo. Non vorrei fare la stessa fine.

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