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Non ho mai conosciuto Pier Paolo Pasolini, ma mi sono formato da adolescente nella sua città, quella straordinaria Roma degli anni Settanta, dove l’ombra del suo genio integro e solido come ossidiana aleggiava ovunque. Una città dove potevi imbatterti in Federico Fellini, imbacuccato in un cappotto pesante, che camminava rasente ai muri di via Margutta, o restare fulminato dallo sguardo penetrante come un laser di Alberto Moravia, sprofondato come un cardinale barocco in una poltrona all’Accademia di Francia. O ancora ascoltare la visione di un tramonto nelle parole di Leonardo Sciascia, o stringere la mano a Jorge Luis Borges in un ricevimento all’Ambasciata Argentina. Anni duri e inquieti, intensi e condivisi, attraversati dall’utopia del compromesso storico voluto da Enrico Berlinguer, vera e incandescente cometa di moralità che ha attraversato luminosa il firmamento denso e oscuro della società italiana per non tornare mai più.
Si assomigliavano, quei due: Enrico e Pier Paolo. Entrambi piccoli, scuri, compatti e intransigenti nella loro avversione ad ogni tipo di connivenza, arroccati castelli di morale nella palude dell’appartenenza. Oggi tornano insieme ad occupare la loro città con un film e una mostra, “Pasolini Roma” al Palaexpò, chiara e precisa come ogni esposizione dev’essere, per porgere al visitatore la complessità di un genio senza retorica né arroganza, ma con la limpidezza della verità.
Scandita da sezioni cronologiche, dove si fondono senza mai sovrapporsi documenti e interviste, film e fotografie, fino a quella intima e tenera pinacoteca di un regista che era poeta e scrittore e giornalista e saggista e politico e in fondo (o in cima) storico dell’arte, allievo di Roberto Longhi, con i suoi quadri e quelli degli artisti che amava, raccolti in una stanzetta: un Morandi, un Mafai, un Guttuso. E le immagini, quasi tutte in bianco e nero, che scandiscono il tempo: la Roma del Giubileo del 1950, quando arriva con la madre da Casarsa, in Friuli, il ritratto dell’amato fratello Guido, scomparso in guerra, le partire a pallone al Quarticciolo, e l’ultima sequenza scattata da Dino Pedriali a Chia, poche settimane prima della tragica morte, il 2 novembre 1975. E naturalmente la gente del cinema, la sua gente: Fellini, Anna Magnani, Godard, Bernardo Bertolucci: un gigante in una città di giganti, che ha raccontato e vissuto con leggerezza ma senza ombra di superficialità, con l’assoluta convinzione di fare la storia con passione e tenacia, insieme alle sue donne, Laura Betti e Maria Callas e ai suoi uomini, quei ragazzi di vita che non si è mai vergognato di amare.
Passione e tenacia: le stesse qualità che dominano la figura del segretario del PCI, nel film Quando c’era Berlinguer, firmato da Valter Veltroni. Una testimonianza struggente e dolorosa del fallimento del Partito Comunista come modello sociale, in un Paese che andrà rapidamente in un’altra direzione, dopo la scomparsa di un leader che nel suo ultimo discorso cita “L’Italia della cultura”, mentre viene superato in corsa da un altro leader, che anticipa le tenebre che avvolgono la penisola da allora ad oggi: Bettino Craxi. Un’immagine del film li unisce: i due leader sono al congresso di Verona, dove Enrico viene fischiato dal popolo socialista, e Craxi non lo fischia «perché non sa fischiare». Sarà la sua Italia a vincere: arrogante, cinica, calcolatrice, becera, pronta a vendersi al miglior offerente, che trionfa nella volgare prepotenza della televisione che Pasolini, pochi anni prima, aveva definito in questo modo: «È stata la televisione che ha praticamente concluso l’era della pietà e iniziato l’era dell’edonè».
Craxi la incarna benissimo, quell’era, che definirei dell’Italia coccodè, dove si ride di austerità e rigore, moralità e impegno, in nome di una comicità che ha divorato tutto per arrivare al Paese attuale, governato da comici, cantanti, imbonitori, strateghi del consenso e lobbisti dell’ultim’ora, che Pasolini aveva definito «la corte dei miracoli d’Italia».
Avete fallito, Enrico e Pier Paolo: nessuno vi riconosce, nel vostro Paese natale. Siete scomparsi da meno di mezzo secolo, ma le vostre immagini vere e pulite sono state sostituite dagli idoli di un’altra Italia, accomodante e credulona, misera e disperata, che non sa che farsene della cultura, perché con la cultura non si mangia. E a noi, che ci siamo formati con voi, non rimane che rimpiangere gli anni dell’impegno, quando pensare non era peccato e leggere era un vanto. E sperare che un giorno le piazze tornino a riempirsi per ascoltare i discorsi di un leader immenso come Enrico o le poesie di un poeta visionario come Pier Paolo, perché sono loro che hanno reso magici quegli anni straordinari. Per sempre.
caro Ludovico vorrei ringraziarti per questo articolo, perché ci ricordi con grande passione e intensità cosa sia la cultura cosa sia stata e cosa potrà essere.
viva
Invece di continuare a perdersi in chiacchere al vento…, in commenti più o meno critici alla casta politica e culturale del nostro recente passato storico o a quella insignificante e inconcldente di oggi…,sarebbe utile per tutti i cittadini italiani, senza distinzioni di classi sociali, applicare quello che diceva Antonio Gramsci: “Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la vostra forza”.
berlinguer è stato un politico eccezionale chissa se in futuro nasceranno altri politici come lui. attualmente non ne vedo quasi nessuno all’altezza della situazione…..forze perchè la situazione è cambiata x effetto della globalizzazione generalizzata. tonino floris