La Ragazza con l’orecchino di Vermeer è stata lanciata con una potenza mediatica che non aiuta certo a imparare chi era Vermeer e cosa significhi quel ritratto impareggiabile. I telegiornali si sono buttati su chi dichiarava che era felice di aver fatto tutta quella fatica. Una specie di gara di resistenza. E ancora pochi giorni fa un comunicato informa che: “28.868 visitatori nei primi 9 giorni per La ragazza con l’orecchino di perla. Svenimenti per l’emozione davanti al quadro”. Ma a chi serve fomentare questi eccessi? Non certo alla conoscenza di Vermeer e degli altri dipinti che dovrebbe essere lo scopo della mostra. Ma lo stereotipo della gara da stadio ha bisogno dei numeri che invadono Palazzo Fava a Bologna: così Marco Goldin e la sua Linea d’Ombra si assicurano il gettito di biglietti, mentre le Istituzioni pagano le spese (come è stato scritto su Exibart).
A Bologna c’è anche molto altro e un pubblico che vede e non sviene. Al Museo Internazionale e Biblioteca della Musica c’è l’installazione video di Grazia Toderi, Luci per K. 222. Racchiude in un’orbita ellittica le straordinarie pitture Settecentesche, l’emozionante raccolta di strumenti antichi, di spartiti. Così condensa in una magmatica visione il luogo stesso. E’ una processione di luci e figure che si alleano caleidoscopicamente, mettendo in evidenza una qualità pittorica. Gli strumenti appaiono, si dileguano, si impastano con l’architettura. Ci fanno venire in mente i violini che Picasso inseriva nei suoi quadri cubisti, ma in Toderi mantengono la loro fisionomia fisica, l’espressione, come nelle persone. È un canto silenzioso, un omaggio a Padre Martini che ha costruito questo eccelso luogo di conservazione e comunicazione culturale, e all’offertorio Misericordias Domini K. 222, di Mozart che Padre Martini aveva particolarmente apprezzato, come scrisse a Mozart stesso in una lettera del 18 dicembre 1776.
L’opera di Grazia Toderi vive autonomamente, ma vederla lì apre la possibilità di addentrarsi, anche solo da profani, tra strumenti straordinari, affreschi e decorazioni architettoniche magnifiche. Insomma, di conoscere le eccellenze del patrimonio artistico italiano. Questa è la comunicazione che appassiona e fa notizia, tanto quanto il grande capolavoro che proviene da un museo straniero. Mi si dirà che non c’è paragone, ma per un olandese il Museo della Musica di Bologna è altrettanto sorprendente di quanto vede a L’Aia al Mauritshuis . Si torna sempre al nodo centrale, in Italia l’arte dovrebbe fare notizia sempre, e non solo quando “aziende” come Linea D’Ombra e molte altre, lanciano i loro prodotti. Chi va in un museo vuole vedere capolavori noti o meno noti perchè vuole conoscere ciò che non sa o ricordare ciò che sa. Non è una gara sportiva, ma semmai con se stessi per capire le capacità creatrici di uomini e donne. Allora diventa una chiave per interpretare i fatti e la storia.
È il caso dello spettacolo, Animanera- Figli senza volto, una produzione CRT Milano, al Teatro dell’Arte della Triennale, fino al 23 febbraio. Il monologo è tratto dal racconto di Ida Farè, Come Voi, (Il Pozzo Segreto, Giunti 1993). Lo recita in modo impeccabile Natascia Curci, regia Aldo Cassano, scene Valentina Tescari. Racconta la giornata anonima di una militante tra il 1981-82, durante la sconfitta delle Brigate Rosse e della lotta armata. La protagonista ha vissuto le manifestazioni studentesche, operaie, femministe della fine degli anni Sessanta, e le vittorie elettorali e sul divorzio della sinistra a metà degli anni Settanta. Gli entusiasmi e poi le delusioni di quei due periodi, che hanno segnato una generazione, hanno avviato la protagonista sulla via della lotta armata, nella quale si colloca un particolare rapporto di coppia, plasmato prima di tutto sulla necessità ideologica di garantire anonimato e clandestinità. Nei quaranta minuti di monologo la protagonista parla tra sè e sè, descrive i gesti quotidiani, uguali, misurati sulle abitudini dei coinquilini. Per essere come voi, per non destare sospetti, per incarnare una giovane coppia di sposi e, quindi, compie i lavori di una quieta casalinga. “Ora che ho finito il mio lavoro. Ora che attendo il ritorno del mio compagno. Un piccolo colpo bussato con le nocche che mi rassicura, mi dice che per una volta ancora è andata bene, siamo liberi, siamo ancora vivi, ancora senza volto. Passano a fatica queste ore lunghe: assomigliano alle attese di una sposa mesta, una sposa noiosa che misura i ritardi del marito col metro di un possibile tradimento. ( …) Come è cominciata. Non ricordo per quale filo sono arrivata a questo punto della maglia. Ho seguito il filo della ribellione pura”. E prosegue in un discorso interiore, alla ricerca delle voci del mondo, ma “estraneo, come appartenesse a un’altra donna, mi appare il tempo di quella giovinezza così vicina”.
Il tempo è solo quello del presente, e dell’attesa, “dell’emozione di questo silenzio”. Alla fine, la mattina dopo, succede un piccolo scarto: il compagno e la compagna si guardano per un attimo come un uomo e una donna e lui sulla porta di casa, si volta, sorride : “Quando torno ti sposo. Sul serio, dico”. Si spezza il filo dell’anonimato militante e fa intravedere il gioco folle di una generazione che rispetto all’imperativo della lotta, metteva in secondo piano le emozioni personali. Ma tutto il monologo indica come il personale, pur depurato dall’amore tradizionale, entra nel politico.
Un velo separa la scena dagli spettatori e crea una specie di leggero appannamento, simbolo del tempo, della distanza, dell’intimità. Il tempo irrompe in modo molto efficace attraverso la proiezione, sul sipario trasparente, di telegiornali dell’epoca che raccontano gli eventi e di un frammento dei “Comizi d’amore” di Pier Paolo Pasolini del 1965, dove una moglie, in presenza del marito, dichiara di prendere la pillola per non aver altri figli e il suo apprezzamento per le proposte del femminismo. Così il racconto individuale trova il panorama storico.
Una sceneggiatura molto incisiva e un modo efficace per trasmettere la complessità delle radici quell’assalto al cielo a giovani nati dall’ 80 in poi (come alcuni degli autori dello spettacolo), che spesso sono attratti dagli anni ’70, ma che non hanno modo di confrontarsi. Quella storia è ormai chiusa nella definizione di terrorismo, utilizzata come uno stereotipo, più che come lettura critica. Come sottolinea la scena finale con la proiezione della attuale pubblicità della Coca Cola, una imitazione di un assalto armato, di “attacchi di violenza”, dice proprio così.
L’arte può comunicare la complessità della critica quando crea sintesi espressive che fanno discutere. Non obbediscono alla regola dei numeri, non provocano svenimenti, ma domande e giudizi. Magari in pochi, ma buoni. È così che l’arte comunica le percezioni in atto, che anni o secoli dopo tutti riconoscono.