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Gentili lettori di Exibart e gentile direttrice,
per quanto riguarda la mostra del Macro sugli ultimi quaranta anni di arte romana, più che entrare nel merito delle scelte, in cui è ovvio che ci siano lacune ma non è giusto che ci siano omissioni, vorrei soffermarmi sui criteri museografici dell’esposizione. A parte la mostra di Turcato, sopraelevata, vorrei entrare nel merito dell’organizzazione del piano terra. In questo più di metà della superficie è dedicata con fasto alla mostra di Jimmie Durham, forse la più bella e matura di questo artista. Passando alla zona Enel altrettanto sconfinato è lo spazio dedicato a Tayou, con opere di spirito seriale, ma anche con parecchie ripetizioni. Parlo di spazi che, sebbene meritati, possono contenere il parcheggio di un’automobile tra un’opera e un’altra.
Per la mostra dedicata a Roma assistiamo invece all’ennesima manifestazione delle condizioni in cui versa il Paese. Le opere, tra l’altro non le più rappresentative, sono messe su tre o quattro livelli, recuperando materiale minore del periodo, come manifesti e inviti, che sono collocati ad altezza di sguardo affinché sia possibile leggerli. Altre opere, come quella notevole di Schifano, semplicemente perché contengono una firma di dimensioni generose, o un’ampia campitura cromatica, sono messe, sinceramente ma obiettivamente, dove lo sguardo non può arrivare. Insomma una mostra in Italia dell’Italia che non mostra le opere. Facendo il conto a passi dello spazio, a 40 anni di arte di Roma è stato concesso il 25 per cento del totale, mentre il resto è stato affidato alle due personali.
Vi sembra giusto? Senza entrare nel merito delle scelte, è tollerabile una organizzazione così squilibrata? Se le due personali erano state già concordate con questa disposizione, perché non scegliere un altro periodo, e dare alla nostra arte lo spazio che merita?
I curatori sanno certamente che il linguaggio dell’arte contemporanea si basa sugli spazi, i quali, da quando vige il gusto americano, devono essere ingenti. Inoltre, secondo lo spirito concreto del mondo anglosassone, si misura l’efficienza di una galleria secondo la quantità di reddito prodotto per metro quadrato. Insomma tutti gli addetti ai lavori sanno che le pareti di una galleria o di un museo non sono spazi neutri e pacifici, ma sono vere e proprie trincee, dove ogni centimetro è calcolato e motivato. Perché allora un’esposizione non solo dimessa, ma addirittura penalizzante le opere esposte? Insomma perché una mostra così anti-italiana? Da più parti si cercano i motivi per valorizzare le capacità italiane. Nell’arte anche degli anni recenti c’è più di un motivo di orgoglio. Non riesco quindi a spiegarmi il motivo di questo discredito, di questo disamore per la nostra produzione. Meglio non averla fatta questa mostra svogliata, sinceramente.
Cercando, come tutti, i mezzi per un diverso e creativo inquadramento della crisi attuale, purtroppo non li trovo in questa mostra, anzi, per ciò che è esposto, meriteremmo la squalifica anche nella ricerca artistica. Lasciate però che mi opponga a tutto questo. Almeno con un messaggio alla lavagna.