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Nelle stelle si può leggere il nostro destino, fin dai tempi antichi si credeva infatti iscritta nella loro posizione e nella loro luminosità la strada del futuro. E allora cosa sarebbe un cielo senza stelle? Letteralmente un desiderio. Siderus, infatti, in latino significa stella, ma se al nome si aggiunge il prefisso de- (con valore sottrattivo) il risultato sarà desiderium. Desiderio è quindi l’allontanamento dalle stelle, la mancanza di auspici, il venir meno dell’orizzonte a cui siamo soliti guardare, l’incompleto che spinge verso la completezza per colmare un vuoto, un’assenza da cui ha origine il desiderio stesso. E così stretto, profondo e antico è il legame che unisce l’uomo al cosmo che la perdita di una parte di esso lo induce a coprirsi di un nuovo manto, perché nudo l’uomo non sa stare.
Stella e desiderio producono quella che in linguistica viene chiamata allotropia, ovvero due parole che volgono verso due significati differenti nonostante derivino da una radice comune. Ma esiste un’altra allotropia che ci tocca ancor più da vicino (anche se alzi la mano chi è immune dal desiderio e dal guardar le stelle), quella tra cultura e coltura. Se facciamo un altro salto indietro nel tempo ritroviamo autori latini come Plinio, Orazio, Catone e il summus orator Cicerone che usano infatti il termine cultura con il significato di agricoltura. Questo è possibile perché la radice col- ha in sé una componente attiva che indica un’azione legata alla coltivazione della terra e una componente concettuale che traspone il significato dotandolo di un’accezione intangibile: la coltivazione dello spirito. Da un parte dunque il termine si propone una funzione pratico-materiale legata al fare, alla manualità, alla tecnica e dall’altra una concettuale connessa all’attività immaginifica, ideale e simbolica. Le due parti sono avvinghiate l’una all’altra in un’appassionante relazione, non c’è subordinazione nel loro rapporto ma una reciproca progressione che alterna momenti di decelerazione o stasi ad altri di grande crescita ed evoluzione. Nell’ultimo secolo, l’uomo ha così esteso il suo potenziale nell’ambiente circostante trasformandolo con l’uso di “protesi” – come diremmo nel gergo di Mcluhan – suscettibili di modifica, adattamento, evoluzione.
A fronte di tutto questo – che non costituisce una veritiera novità visto che i termini da cui ci siamo mossi (siderus e cultura) non sono certo di recente definizione come del resto le riflessioni intorno al rapporto natura/cultura o cultura/tecnologia – cosa potremmo aggiungere se facendo ad oggi una mappa geopolitica costatassimo che i focolai di guerra ardono soprattutto in quei punti strategici fornitori di oro nero? Quel Petrolio “preambolo del testamento” di Pier Paolo Pasolini, causa di accordi e disaccordi con le Sette Sorelle dal tempo di De Mattei e della sua infausta sorte? Per quanto globalizzati e in minoranza rispetto alle banche, ai traffici internazionali, alle trattative nei vecchi e nuovi palazzi di vetro, una volta maturata la consapevolezza di quel che accade, possiamo ancora far qualcosa che non rientri nella mera rassegnazione, accettazione di ciò che è e sempre sarà? Ci siamo mai fermati per un attimo a pensare che possano esistere delle alternative possibili e che queste alternative possano essere realmente applicabili in comunità che non necessariamente debbano vivere come gli Amish?
I laboratori di arte e biodinamica tenuti da Emilio Fantin alla Fondazione Lac o Le Mon a San Cesario in provincia di Lecce pongono queste e altre domande, proponendosi grazie alla partecipazione attiva di un pubblico variegato (artisti, critici, ma anche giovani imprenditori di aziende equo-solidali e poi cioccolatai, agricoltori, architetti, geologi o semplicemente ascoltatori portatori di interesse) di aprire il dibattito praticando le soluzioni. La stessa sede della fondazione, in un casale salentino senza tempo e ricco di stratificazioni, sta seguendo nella sua ristrutturazione quelli che sono i principi di ecosostenibilità di cui l’architettura contemporanea si può dotare. E poi c’è l’arte come principio generatore. Ricordiamo infatti che la Fondazione è stata costituita dai cinque artisti di Lu Cafausu (Fantin, Negro, Norese, Pietroiusti, Presicce) e – come scrive Fantin – l’arte diventa necessaria perché in questo contesto «si tratta anche di sviluppare una sensibilità per la bellezza, intesa sia come espressione estetica che come manifestazione di forze di vita». I principi che reggono questa Weltanschauung si avvalgono delle teorie steineriane e di una concezione ribaltata dell’atto creativo rispetto alle modalità in cui il mondo dell’industria culturale lo ha canonizzato.
Ci ricordiamo di Bartleby lo scrivano, il timido copista che non scrive non perché non sappia, ma semplicemente perché preferirebbe non farlo? Bartleby pronunciava ostinatamente a qualsiasi richiesta gli venisse fatta: I prefer not to. L’espressione ha una potenza corrosiva che arriva ai nostri giorni e la ragione è semplice. Come spiegano Deleuze e Agamben nei due saggi distinti dedicati al personaggio melvilliano nato dalla stessa penna di Moby Dick, I prefer not to è una formula di agrammaticalità perfetta, un’espressione che disinnesca il dialogo e confonde i presupposti della comunicazione, semplicemente perché ciò che ci si aspetta che l’altro faccia improvvisamente non viene fatto e senza una motivazione. Alla logica dei presupposti (ruolo sociale) si sostituisce la logica della preferenza (ruolo individuale) e questa formula diviene la stessa formula della creazione, una creazione che parte dalle possibilità del non. Ah Bartleby, ah umanità… dovremmo aspettare la sparizione delle stelle dal cielo per sentire ancora il desiderio di sottrarci ai ruoli che appongono timbri di Morte su lettere di Vita?!
Su di un cerchio ogni punto di inizio può essere anche un punto di fine. Riprende così Marginalia dal primo collettivo di cui avevamo parlato. Lu Cafausu era infatti “un luogo talmente privo di senso da diventare simbolico”, così quest’estate siamo stati a Lac o le Mon, la fondazione appendice di Lu Cafausu, perché le parole e le cose, la teoria e la pratica possano concorre alla costruzione di un luogo tanto simbolico da diventare reale.
Serena Carbone