Categorie: lavagna

MARGINALIA #15 |

di - 26 Gennaio 2017
Il secolo scorso ha introdotto nuovi valori visuali: disattenzione, flou, inatteso, discreto, diffuso, che rimandano a delle qualità di “attenzione periferica” spesso connesse a ciò che viene frettolosamente liquidato come decorativo o accessorio e la cui caratteristica primaria sembrerebbe il riciclaggio dei segni del quotidiano. Delocalizzazione, spazi della distrazione, creazione di nuove soggettività ai “margini” all’arte contemporanea sono del resto aspetti che questa rubrica fin dal suo nascere si è proposta di indagare. In questo panorama rientra una categoria che si è imposta con un certo interesse dagli anni Sessanta in poi, all’indomani del consolidarsi della società dei consumi: il décor o decoro.
Nonostante il termine sia complesso da definire in maniera univoca perché essenzialmente duplice nella sua stessa etimologia che richiama sia fattori legati all’ornato che all’etica (il decoro è anche una sorta di appellativo morale sul “come” apparire nella società), qui si vuole approfondire la pratica intesa come quell’insieme di arredi che fanno parte degli interni della casa e del decoro della vita ordinaria, perché proprio in questa prospettiva si può leggere il percorso di Flavio Favelli.
Fin dall’inizio, nelle sue opere, si denota l’utilizzo di lampadari e mobilia varia (come credenze ed in generale oggetti in legno, caldi e familiari) che fanno parte generalmente del suo passato e di una sua collezione personale. L’azione creativa rielabora dinamiche inconsce connesse alla memoria e alla vita dell’artista che, a sua volta, riesce ad innescare un processo di straniamento su di un oggetto che evoca il dettaglio dimenticato nei meandri dell’oblio; un dettaglio, però, che se stuzzicato riaffiora in un’atmosfera suggestiva avvalorata da un uso particolare della luce, più o meno soffusa, spesso artificiale di un bianco candore e/o asettico godimento.

Un miscuglio di proprio e improprio fa delle sue stanze degli ambienti perturbanti in cui la resa del particolare rende chi guarda chiamato ad interagire con lo spazio in prima persona; non tanto tramite un’azione diretta, quanto inconscia, fatta di rimandi ad una storia comune, spesso prettamente italiana. Il decoro nella sua ricerca, infatti, non richiama tanto le dinamiche industriali di produzione, quanto l’investimento emotivo e il legame che ogni individuo stabilisce con ciò che lo circonda. Non mancano, infatti, i riferimenti a prodotti vintage e marche di un tempo non molto lontano che è stato spazzato via dall’obsolescenza repentina e coatta.
«Epoca, luogo, fabbrica, proprietario da cui proviene – tutti insieme, per l’autentico collezionista formano in ogni singolo oggetto della sua proprietà una magica enciclopedia che nella sua sostanza è il destino dell’oggetto», e forse il collezionista descritto da Walter Benjamin nello scritto Tolgo la biblioteca dalla sue casse ha molto a che vedere con il collezionista Favelli. Non è, infatti, l’oggetto in sé nella sua forma e dimensione ad essere al centro della sua ricerca, quanto quella magica enciclopedia che quello stesso oggetto dalla sua nascita alla sua morte racchiude in sé. E tanto magico è il suo stesso destino che non può coinvolgere solo quello del singolo proprietario ma tutta una generazione di acquirenti di oggetti dell’anima che eleggono come loro dimora un’effimera  stanza vuota piuttosto che una magniloquente sala di un museo. E spesso quel che resta di questo percorso personale e collettivo di appropriazione e ridefinizione dello spazio estetico quotidiano non è altro che un’ombra, una proiezione su parete di qualcosa che è stato.

«Nell’arte c’è anche negatività, contrasto, questioni che dividono, angosce che sono la poetica che pesa come una casa e segna un’intera esistenza […]» (da Wall paintings, Cancellare tutto conversazione tra Luca Bertolo e Flavio Favelli). «La cancellazione è un tema costante e ricorrente della mia vita. Le immagini censurate, private, oscurate, coperte, tamponate, sono immagini attraenti e che metto in relazione al piacere oltre che al conflitto. Sottrazione, censura, privazione, oscuramento, copertura, tamponatura, sono cose dure, eppure mi sono care, e comunque in qualche modo fanno rima con conflitto» (Flavio Favelli, One Pound, 1 ottobre 2016).
Negli ultimi anni Favelli ha allestito proprio nei suoi luoghi alcune delle opere-ambiente realizzate, processando il distacco e l’abbandono come una sorta di rito personale e collettivo. Mobilia Essay [14/15 novembre 2015 tra Savigno (BO) e Castello di Serravalle (BO)], segna il passaggio dal vecchio al nuovo studio, mentre Via Guerrazzi 21 (30 settembre/1 ottobre 2016) l’abbandono metaforico della sua vecchia abitazione in centro a Bologna.
* Via Guerrazzi 21 è eccezionalmente riproposta in questi giorni di Artefiera con il seguente orario: venerdì 27 ore 16-20, sabato 28 ore 16-22, domenica 29 ore 16-20.
Serena Carbone

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