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«Tutte le volte che incontra un suo amico pittore, lo scrittore rincasa rimuginando tra sé. Le opere che espone il pittore non sono dei veri e propri quadri: sono momenti del rapporto tra chi fa il quadro, chi guarda il quadro e quell’oggetto materiale che è il quadro. Lo spazio che occupano queste opere è soprattutto mentale […]. Non è il rapporto dell’io col mondo che queste opere cercano di fissare: è un rapporto che si stabilisce indipendentemente dall’io e indipendentemente dal mondo. Anche allo scrittore piacerebbe fare delle opere così: perché all’io non ci crede o se ci crede non gli piace; e perché il mondo non gli piace o se gli piace non ci crede. Però non riesce a trovare la strada». Così Italo Calvino scrive sulla curiosa “invidia” dello scrittore nei confronti del pittore ne La squadratura, testo che introduce Idem di Giulio Paolini, pubblicato nel 1975.
Nel rapporto tra l’io e il mondo si consuma la più grande storia d’amore di tutti i tempi. Esclusività, molteplicità, presenze terze sono tutte modalità combinatorie che fanno del processo creativo qualcosa in constante divenire. Del resto la nostra storia ha inizio agli albori del secolo scorso quando al centro dell’attenzione di artisti e scrittori al posto dell’opera finita è subentrato il suo processo: la preposizione meta (che significa tra, oltre, al di là in greco) ha iniziato a circolare così prepotentemente che la formula del metaromanzo ha avuto sempre maggiore diffusione andando a significare proprio quel procedimento di mise en abyme che rende visibile l’invisibile, ovvero le tecniche del come si costruisce un’opera. Come? Generalmente i protagonisti del romanzo divengono lo scrittore e il suo stesso romanzo. Ed allora cosa succede quando ad essere protagonisti sono invece gli artisti e le loro opere? Roberto Pinto nel suo ultimo libro Artisti di carta. Territori di confine tra arte e letteratura (Postmedia Books editore) cerca di rispondere a questa domanda, passando in rassegna una serie di romanzi che parlano di arte, in particolar modo contemporanea.
L’arte come metafora del mondo, l’arte come territorio di libertà, l’arte come spazio di azione, sono diverse le ragioni per cui uno scrittore si avventura nel mondo del visuale, ma principalmente nel campo letterario l’arte diviene un espediente che struttura la narrazione orientandone lo svolgimento. Ed allora è interessante chiedersi come gli scrittori vedano questo mondo. Il romanziere compie spesso infatti incursioni spregiudicate nella creazione artistica prendendo parte ad una vera e propria “riscrittura” dei confini dell’arte.
La descrizione minuziosa delle intenzioni, delle procedure e delle pratiche che sottendono l’opera non di rado sono al centro del racconto, tanto da poter pensare – una volta chiuso il libro – di poter realizzare noi stessi l’opera o per lo meno di poterla costruire con la nostra mente, pezzo dopo pezzo, fino ad occupare interamente lo spazio davanti a noi. Ma anche le dinamiche economiche e di mercato rientrano all’interno della narrazione tanto da svelare come queste influiscano sui comportamenti e le scelte dell’artista. Gli sconfinamenti, inoltre, non si fermano alla carta stampata, ma spesso danno vita a delle collaborazioni vere e proprie di cui Pinto ci racconta la storia: tra Paul Auster e Sophie Calle o tra la stessa e Enrique Vila-Matas per esempio. E nonostante l’attenzione dell’autore si concentri principalmente sugli scritti di Don DeLillo, Sophie Calle, Siri Hustvedt e Orhan Pamuk, scorrendo le pagine spuntano decine e decine di altri nomi: Max Aub, Michel Houellebecq, Ian McEwan, Georges Perec, Tiziano Scarpa, Kurt Vonnegut solo per citarne alcuni.
Le intersezioni e gli scambi tra arte e letteratura guidano l’autore in una disamina attenta di questo campo comune in cui il gioco di costruire storie tra realtà e finzione sembra essere una costante. A tal proposito, infatti, mai cadere nel tranello che tutto sia reale nonostante le coordinate spazio-temporali appaiano più vere del vero. Ne abbiamo già parlato in Marginalia#16 con Kassel non invita alla logica di Vila-Matas, ma anche l’incipit de La Carta e il Territorio di Houellebecq può esserne un esempio: «Jeff Koons si alzava dalla sua sedia, le braccia protese in uno slancio di entusiasmo. Seduto di fronte a lui su un divano di pelle bianca parzialmente ricoperto di un tessuto di seta, un po’ incurvato, Damien Hirst sembrava sul punto di formulare un’obiezione; il volto rubicondo aveva un’area cupa».
Seppur distante dall’ut pictura poësis, la metodologia seguita da Artisti di carta richiama settori di studio propri alla Visual Culture contemporanea e alla comparatistica internazionale, dove parola e immagine, trasportati su di uno stesso piano d’indagine, mettono in atto una dialettica in grado, ancora oggi, di comunicare il mondo.
Serena Carbone