“Non si scrive né per sé, né per gli altri. Si scrive per quel sé che coincide con gli altri” (Giuseppe Pontiggia).
Potremmo dire la stessa cosa dell’arte di Marinella Senatore che nella sua pratica è riuscita a congiungere il sé con gli altri in un processo creativo che, a scapito di tutte le teorie sulla rottura o sul détournement, trova il suo atto primigenio in un punto di incontro. Straripati gli argini del rapporto pubblico/opera ed opera/spazio, il suo lavoro innesca un’azione corale in cui è il corpo sociale ad essere al centro dello spazio.
Nel 2013 Marinella Senatore dà vita a The School of Narrative Dance, scuola gratuita, itinerante, accessibile a tutti ed in cui la didattica si fonda sulla partecipazione attiva di docente e discente. Ad oggi la scuola ha girato per sette Paesi ed ha coinvolto una cifra esorbitante di persone. Alla base vi è la pratica dello storytelling in cui – in questo caso – è la danza ad essere strettamente connessa alla narrazione. Ma vediamo più da vicino come nasce l’idea e come funziona anche attraverso le parole della stessa artista. «Da sempre, istintivamente, mi sono interessata ai contesti corali, per molti anni ho suonato il violino in formazioni orchestrali e poi è arrivato il cinema, il set è l’ambiente dove ho sperimentato di più il concetto di collettività , ognuno ha il suo ruolo, deve attendere alla propria mansione, ma ciascuno è indispensabile al funzionamento dell’intero processo».
Quindi, una pratica mutuata dalla cinematografia che mette in relazione gli individui tra loro, perché l’artista – come spesso ama dire lei stessa – è un attivatore di energie. «Questa visione corale è stata anche il motore dei miei primi progetti partecipativi, l’idea che una comunità , che prima non esisteva, potesse essere creata dall’incontro di differenti individualità mi emozionava profondamente». Sperimentando quanto fosse importante il contributo del singolo è nato così il progetto The School of Narrative Dance, «una scuola, alternativa con un sistema didattico opposto a quello a noi tutti conosciuto, ma anche un contenitore di esperienze in cui si può scegliere di entrare, portare delle cose e prenderne delle altre, e magari a volte uscirne in un certo qual modo diversi, arricchiti».
Un’utopia reale, dunque, e un’esperienza unica che si iscrivono all’interno di uno spazio sociale (piazze, strade, musei) che si apre ad altre possibilità di interazione e scambio rispetto a quelle quotidiane. Tanto più che ad essere coinvolti non sono addetti ai lavori, ma persone comuni. «Ho lavorato con migliaia di persone ormai in tutto il mondo – osserva Marinella Senatore – e posso affermare con sicurezza che la mia più grande soddisfazione proviene dalla loro reazione davanti a un’esperienza mai fatta prima. Spesso può sembrare che non lasci nulla, invece ogni volta, in maniera diversa, osservo la gioia, l’emozione delle persone nel sentirsi, magari per la prima volta, parte essenziale di un processo più grande».
Nelle tre fasi del progetto (prerealizzazione, realizzazione e postproduzione) la prima è quella maggiormente dedicata alla pratica della narrazione, perché coincidente con il momento del racconto e della costruzione della sceneggiatura; poi vi è la messa in scena che può assumere diverse forme: parata, come al Castello di Rivoli nel 2013 in occasione della mostra «Costruire comunità », oppure opera per lo schermo in tre atti, come Rosas nel 2012 realizzata in quattro paesi differenti o opera lirica come l’ultimo lavoro fatto per Les Laboratoires d’Aubervilliers di Parigi, MétallOpérette; infine vi è la restituzione del momento precedente in video, film o installazione. Un metodo dunque in cui il momento rappresentativo non è qualcosa al di fuori di noi, ma qualcosa che sta attraversando noi, il nostro corpo e il nostro spazio, perché arte è quel che succede mentre accade, perché arte è un divenire sperimentale che – in questo caso specifico – pone alle base della costruzione collettiva la conoscenza, e non solo in senso teorico. A livello linguistico, il verbo narrare, infatti, porta in sé la stessa radice di conoscere: la narrazione è prima di tutto un atto di conoscenza tra due o più persone ma anche di sé stessi.
In questa pratica Marinella Senatore si pone in dialogo con le istanze della contemporaneità più che con gli happening degli anni Sessanta, anzi come precisa «mi sento più legata al cinema neorealista, alla cultura pop, al teatro politico, alla drammaturgia teatrale contemporanea, alle teorizzazioni di personalità quali Jacques Rancière o Zigmunt Bauman».
Nonostante accada spesso che ad essere protagonista sia lo spazio fuori dal museo, il motore dell’intero processo si accende quasi sempre da un dialogo con il Pubblico che non solo finanzia il progetto ma diviene parte del processo creativo ridefinendo il suo stesso statuto. «La mia sfida e il mio più grande interesse è sempre stato quello di portare in quegli spazi collettività che magari prima di allora non avevano neanche mai visitato un museo. E non solo, arrivare a lavorare con quelle stesse collettività all’interno delle istituzioni di cui parliamo, negoziando ogni segmento del processo, rielaborando e superando anche molte difficoltà di accesso presenti in quei luoghi, ogni volta riuscendo a far sentire al pubblico la possibilità di “riprendersi” una parte di quel patrimonio, in termini di esperienze e di capacità di lettura mai affrontate prima, e tutto questo attraverso la mia mediazione ma soprattutto il nostro lavoro insieme». Si definisce così l’idea di museo contemporaneo come un “luogo di creazione dove moltissime persone, non connesse all’arte o al sistema della cultura (e ovviamente anche tutte quelle che sono già pubblico dei musei!), possano fare delle esperienze, reinventare le strutture codificate, metterle in discussione, o soltanto ipotizzare un funzionamento diverso». Del resto, è molto interessante «gestire un progetto pubblico sostenuto da fondi pubblici, fondi già destinati all’arte e alla cultura in genere, come un processo di rimessa in discussione e di circolazione delle risorse fornite dal pubblico e ad esso restituite».
La collettività della School of Narrative Dance non si configura solo come una nuova comunità che impara ad abitare meglio il mondo, come nelle migliori pratiche di estetica relazionale, ma dona a chiunque – anche a noi che stiamo leggendo – la possibilità di immaginare. E se pensare al futuro è fin troppo esaltante come fin troppo malinconico è il pensiero del passato, immaginare il presente raccorda i sogni, l’azione e la trasformazione in un unico grande progetto di vita.
Serena Carbone