Dieci anni fa esatti, in tenuta da calciatore e con zaino in spalla, s’intrufolò nei Giardini della Biennale simulando il Padiglione Clandestino Albanese. Oggi è l’artista che rappresenta Il Kosovo alla Biennale. Sislej Xhafa, formatosi in Italia, di stanza a New York e costantemente in giro per il mondo è l’esempio di un artista internazionale, emigrato per necessità e apolide per virtù.
«L’arte – sostiene – rappresenta il mondo ed io sono interessato non alla geografia ma alla possibilità di un’opera di ripensare il suo tempo, di reinventarlo. È questa la vera forza, inconsapevole, dell’artista: creare opere in grado di reinventare continuamente il tempo. Io ad esempio per farlo uso l’ironia, che non va confusa con l’umorismo, che è caduta nel ridicolo. L’ironia lascia spazio alla partecipazione, aspetto per me fondamentale perché sono convinto che l’arte sia l’unica vera democrazia. L’artista quindi non può cambiare il proprio tempo, ma deve porre domande per far riflettere».
Un peregrinare, quello di Xhafa, silenzioso, a tratti invisibile, che lo accomuna a quello del suo popolo sintetizzato, appunto, nel ‘97 a Venezia. «La performance – ci racconta – puntava a suscitare delle domande sulla partecipazione alla Biennale in termini di inclusione-esclusione. Com’era possibile che una nazione piccola come il Lussemburgo avesse un Padiglione e invece non lo avesse una nazione grande come l’India [la prima partecipazione ufficiale dell’India alla Biennale risale al 2011]?».
L’artista avverte forte il senso di identità nazionale così come le più stringenti tematiche del mondo contemporaneo. È sua convinzione che alla grande esposizione veneziana spetti il compito di riflettere la complessa situazione odierna, puntando soprattutto sui Paesi emergenti. «La Biennale – spiega – è un atto politico, non artistico. Riconosco il nazionalismo nell’identità dei suoi artisti. Ad esempio, se pensiamo a Damien Hirst pensiamo all’Inghilterra. La finta globalizzazione dell’arte non ha nulla a che vedere con la qualità individuale. Personalmente ritengo che i padiglioni nazionali, in questo momento, siano più importanti per i Paesi in via di sviluppo che non per le potenze mondiali, poiché i primi hanno molto più da raccontare».
Il pretesto e l’origine di questa narrazione sono da rintracciare nella storia recente di questi Paesi, vittime di guerre civili, regimi dittatoriali, pulizie etniche, privazioni fisiche ed intellettuali di ogni genere. Confessa l’artista: «Non puoi restare indifferente di fronte alle sofferenze del posto in cui sei nato. Il luogo della mia nascita è un posto sacro per me però non voglio abusare della storia del mio Paese. Io voglio che la mia storia e il mio essere si riflettano nel tempo e nel luogo che attraverso per creare di volta in volta qualcosa di eccezionale e di magico».
Questa 57esima edizione, non è la prima Biennale di Xhafa (dopo il 1997 vi è tornato, con invito, nel 1999, nel 2005 e nel 2013), ma lo è per il Kosovo che, dopo un difficile percorso di costruzione statale, si presenta alla platea internazionale con una propria storia e una propria identità.
Kosovara anche la curatrice, Arta Agani, direttrice della Galleria Nazionale del Kosovo. «Arta è una curatrice coraggiosa, le piace sfidare continuamente il sistema dell’arte, proprio come me», commenta Xhafa. Un’affinità intellettuale tradottasi in una reciproca sintonia e in un lavoro sinergico, i cui modi e risultati, al di là delle dichiarazioni di entrambi, non è dato ancora conoscere. Il progetto “Last and found” che stanno preparando per l’Arsenale è avvolto dal massimo riserbo. Non una novità per l’artista, che ama stupire e, da scaltro conoscitore del sistema dell’arte qual è, sa bene che esiste una relazione direttamente proporzionale tra la curiosità del pubblico e il mistero che circonda un’opera. Del resto, le sue sono vere e proprie invenzioni, sempre argute, capaci di celare, dietro sardoniche fattezze e movenze, serie riflessioni; raffinate speculazioni, siano esse installazioni o performance, non di rado eseguite con mezzi minimi, il cui effetto è spesso amplificato dalla sorpresa che determinano e dalle polemiche che ne scaturiscono. Un modo di intendere l’arte che bene esprime il suo cammino verso soluzioni sempre meno oggettuali e sempre più processuali e relazionali.
Per svelare il mistero, appuntamento in Biennale.
Carmelo Cipirani