Due artiste a confronto: Silvia Giambrone intervista Stefania Migliorati. Responsabilità dell’artista, tutela della diversità e diritto allo spazio i temi di queste righe.
Conosco il tuo lavoro da molti anni, siamo state compagne di strada sin dall’inizio e mi sembra di avere assistito ad un processo che ti ha portata sempre più ad ascoltare le risonanze più emotive dei luoghi e il modo in cui questi agiscano sulle persone che li abitano. Negli ultimi anni il tuo lavoro ha preso una direzione sempre più chiara, mostra una forte coerenza nei temi e una ricca varietà linguistica. Cosa è cambiato nel tempo?
«È cambiato il contesto sociale. Il mio, tanto per cominciare. Quando ci siamo conosciute avevo appena finito l’Accademia di Brera e deciso di trasferirmi in un altro paese per capire un contesto più ampio, non solo dell’arte contemporanea. Vivere a Berlino per la maggior parte del tempo ha aperto la mia sensibilità rispetto ad alcune questioni che prima sentivo vicine ma non ancora così chiare. Con Garutti in classe si parlava già di responsabilità dell’artista, del contesto sociale in cui l’arte si pone o dovrebbe porsi. Ma questo succedeva in classe. Fuori non sono riuscita a trovare in quegli anni una corrispondenza nella vita di tutti i giorni mentre a Berlino ho trovato terreno fertile da questo punto di vista. Parliamo di dieci anni fa. Berlusconi era stato rieletto da poco. La situazione era in stallo ed il dibattito pubblico era stagnante. Ho sentito che sarei dovuta partire. A Berlino si parlava di diversità, di discriminazione, di diritto allo spazio privato e pubblico, di responsabilità storica. E così oggi. Se ne parla tutti i giorni. Non puoi non porti delle domande. Puoi anche arrivare a conclusioni opposte ma ti poni la questione. E l’arte non è esclusa da questi discorsi ma partecipa ed ha degli spazi riconosciuti in cui può esprimersi anche in termini sociali e politici. Questo per dire, il mio lavoro parte da lì. Da questo bisogno di comprensione del contemporaneo e dalla necessità di esserne parte attiva. E lo faccio con gli strumenti che ho e che mi costruisco nel tempo. Da qui l’eclettismo dei materiali che riassumono i tentativi con cui ho cercato di relazionarmi alla realtà. L’ultima mostra alla Fusion Gallery di Torino, dove ci siamo incontrate l’ultima volta, racconta i risultati più recenti».
Entrando alla mostra si aveva l’impressione di essere in un luogo in cui piccole cose vive venivano preservate, piccole cose importanti che non hanno perso la loro vitalità
«La mostra era vivace a partire dalla scelta dei materiali che sono vari, diversi, azzardati nelle combinazioni. L’acrilico secco si arrotola attorno alla ceramica, il tessuto si ripiega su un foglio di silicone imbevuto di colore. Il nastro adesivo a specchio avvolge la ceramica e la snatura della sua consistenza. L’inchiostro si mischia con il lapis sulla carta fatta a mano. Piccole cose, piccoli dettagli che cercano nella loro singolarità di raccontare una complessità attraverso la compresenza nello spazio. Combinare i materiali per me e per il momento ha senso se visto in questa prospettiva. I dettagli non costruiscono poi le storie più coinvolgenti? Ci sono lavori che si arricchiscono ogni volta che li rivedi. Un dettaglio salta all’occhio quando prima era passato inosservato. Nella serie dei video In Plain Sight, ad esempio quello girato a Zurigo, la prima volta vedi i ragazzi che saltano dal ponte, la seconda volta noti la gente che si ferma a guardarli, la terza la gente bagnata dagli schizzi. Tu cosa hai notato?».
Entrambi i video esposti in mostra mi sembrano attraversati da quella che Fortini chiamava una “calma giustizia”, si ha quasi l’impressione che la città diventi un giardino dove le cose insospettabilmente, abbeverate da chissà quale segreto tra pochi, fioriscano ancora. Mi piacerebbe che questa serie di azioni fossero organizzate in un archivio, uno di quegli archivi a cui ricorrere in caso di apocalisse, come la banca dei semi in Norvegia che raccoglie tutte le specie di semi esistenti, in caso essi dovessero estinguersi.
«Nei video c’è in effetti una componente malinconica; come se documentassero azioni di un tempo felice passato. In ecologia esiste questo concetto che si chiama Shifting Baseline Syndrome secondo il quale se nasci in un certo ambiente ecologico pensi che la diversità che lo caratterizza sia la più ricca. Con questa percezione, se una o due specie scompaiono sembra quasi irrilevante. Questo accade di generazione in generazione col risultato che impercettibilmente riusciamo con difficoltà ad immaginarci la ricchezza e la diversità di un tempo. Se prendiamo lo stesso concetto e lo applichiamo alla società e al numero di azioni e comportamenti che ci sono concessi forse scopriamo allo stesso modo che abbiamo perso qualcosa in termini di libertà. Certo la domanda è rispetto a quale contesto. Più liberi di chi e dove? Il lavoro infatti apre anche una finestra sulla questione di chi si può permettere o si sente in diritto di compiere azioni stravaganti o a volte semplicemente utili ma non previste dalla legge. Al momento mi è successo di documentare solo uomini bianchi. Al centro del lavoro comunque rimane una visione positiva: sono azioni a mio parere liberatorie e di riappropriazione dello spazio in cui si vive. Le sento quindi come esempi virtuosi, azzardati forse ma perché no? Anzi quasi appunto necessari per controbilanciare uno sterile livellamento del comportamento e del pensiero».
Credo che fosse proprio quest’ultima cosa a permeare la mostra di una certa grazia impalpabile. Viene da sperare in una rivoluzione silenziosa, una ribellione delle piccole cose, come in una fiaba in cui le cose più inaspettate si animano magicamente per offrire improvvisamente una prospettiva giocosa e tradire quel che conosciamo come realtà lasciando il posto a forze sconosciute e graziose. Forse per ritornare al rispetto delle cose abbiamo di nuovo bisogno della fantasia.
«Giusto. Fantasia e anche perdita di controllo ossessivo se vogliamo. Questa spiacevole attitudine a dominare, gestire, condizionare il mondo degli altri, intesi tutti gli altri esseri viventi, l’altro da sé. Ma lasciare che le cose prendano forma secondo i propri equilibri e i propri bisogni. In natura abbiamo fatto un disastro applicando processi che tendono alla desertificazione piuttosto che all’inclusione e appena ci troviamo a contatto con la diversità ci spaventiamo o ci sorprendiamo.
I disegni della serie Il giardino degli animali estinti che fanno parte della mostra vogliono ricordare questi due sentimenti ed essere un’occasione per domandarci se non sia il caso di farci un po’ da parte».
Dopo un centinaio di metri schiacciai i freni, parcheggiai il più vicino possibile al bordo della strada stretta e saltai fuori dall’auto…C’erano punte rosse e ricurve di acetosa, dorate ginestrine come cuffie da quacchero, i delicati bulbocastani umbellati, poligala comune – alcune rosa, altre blu – silene dioica e geranio selvatico. C’erano piccoli bianchi fiori di euphrasia, con tuorli d’uovo sulle loro lingue, scrofularia scura, che rilasciò un ordore aspro quando la sfiorai con la mano, centaurea purpurea, achille millefoglie rosa e bianca, digitale, nontiscordardimé, felce maschio, profondi cuscini di caglio zolfino, lampone selvatico…
George Monbiot, Selvaggi, Il rewilding della terra, del mare e della vita umana, p.215, Piano B Edizioni, 2018
Silvia Giambrone