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Disturbanti, irriverenti, contemporanei: basta aprire la home page del sito web dei Cool Couple per trovarsi di fronte a quel “popular” che tutti abitiamo e viviamo attivamente o meno. E che il duo ci restituisce in un’altra maniera, al di là del politically correct.
Entrambi educati alla fotografia, negli ultimi anni avete intrapreso una serrata ricerca sul ruolo dell’immagine nella società occidentale. Penso in particolare ad Approximation to the West (2012-2016).
«Approximation to the West è forse il lavoro che più esplicitamente ha affrontato lo status della fotografia come strumento d’indagine, in un momento in cui si discuteva ampiamente dei limiti dell’immagine. Il tema non era nuovo – pensiamo ad Alfredo Jaar e al suo progetto dei primi anni ’90 sul genocidio del Ruanda – ma nel 2012 eravamo mossi dall’esigenza di confrontarci con la nostra stessa formazione, in particolare riguardo al ruolo dell’autore e all’efficacia dell’approccio documentario. Ci chiedevamo come la fotografia potesse essere adoperata in un periodo in cui la democratizzazione dei mezzi di produzione e condivisione delle immagini stava radicalmente cambiando il modo in cui queste erano fruite. Non sarebbe corretto dire che ATTW ha terminato la nostra relazione con la fotografia: il fotografico è ovunque oggi e sarebbe una follia non volerlo prendere in considerazione. Specialmente ora che, con il dilagare del trend “Antropocene”, si stanno riesumando, senza problematizzarli, posizioni e qualità della fotografia che in alcuni casi appartengono a discorsi desueti».
La vostra pratica artistica ingerisce i codici consumistici dettati dal marketing, dal web e dalla tecnologia pop digerendoli e rigettandoli in chiave beffarda.
«Lo fa abbastanza spesso, quando ha senso. In alcuni progetti abbiamo deciso di adottare una pratica mimetica, che però nella sua pretesa plausibilità introduce sempre, in qualche modo, degli elementi che la rendono forse troppo ironica per essere plausibile. L’immaginario pop è una parte integrante della nostra ricerca: del resto è quella la fucina che un po’ tutti abitiamo. È un ottimo strumento per misurare quello che sta succedendo e osservare le contraddizioni del sistema che governa la nostra società. Basti pensare alle polemiche legate alla vittoria di Mahmood a Sanremo, che hanno riproposto la retorica che ha portato alla vittoria politica l’attuale maggioranza di governo: l’estraneità dei tecnici rispetto al volere del popolo, tra le altre cose. Per quanto possano sembrare argomenti poco rilevanti e personalmente non siamo grandi fan del pop italiano, non possiamo sottovalutarli. A nostro avviso è molto difficile muovere una critica al “sistema” senza essersi sporcati un po’ le mani».
Approximation to the West, Never Trust the West Again, 2014, poster, 70x100cm. Courtesy gli artisti e MLZ Art Dep;
Turbulent Times. Nothing Happens in Nice Weather è un progetto che indaga alcune delle contraddizioni legate alla relazione tra tecnologia e umano. Mi piacerebbe soffermarmi in particolare sul quarto capitolo della serie, dal titolo Way Out (2018).
«Turbulent Times è nato con l’idea di fare sistema, raggruppando e riordinando quelle che, fino a tre anni fa, erano ricerche convergenti, ma ancora slegate le une dalle altre. A influire su questa decisione era stato il nostro interesse verso il dibattito sulla crisi del presente, all’interno del quale i legami tra tecnologia, biosfera, politica e via dicendo sono indissolubili. Se nei primi tre capitoli c’eravamo già occupati parzialmente dell’influenza della tecnologia e della sua pervasività (rispettivamente in Karma Fails e Cool People Pay Happily), con Way Out abbiamo rivolto il nostro sguardo a quest’argomento, con l’intenzione di lavorare in particolare sulla regolamentazione e la percezione della tecnologia. Way Out combina la problematica di legiferare su un ambito complesso come quello tecnologico con l’economia della paura sorta dopo il 9/11 esponendo un jammer: un apparato illegale il cui scopo è disturbare i segnali su cui viaggiano le comunicazioni, dal GSM al 4G. Così facendo, crea una vera e propria bolla di invisibilità, all’interno della quale una persona non può essere rintracciata, ascoltata o osservata dai propri dispositivi. Ed è questo il secondo livello sul quale si articola Way Out: combinando i principi del design degli oggetti di domotica con la tecnologia del jammer, il progetto evidenzia anche lo slittamento nella percezione comune della privacy e della sorveglianza. Se siamo sempre più inclini a circondarci di dispositivi che trasformano la nostra vita in un incessante monitoraggio, l’idea di poterci disconnettere non è più soltanto complicata, ma diventa inconcepibile».
Giulia Colletti