Nella settimana palermitana di Manifesta incontro Sergio Racanati. Siamo a Corleone, in occasione di RAID, e come strane creature non passiamo inosservati nel paese silente una domenica pomeriggio di giugno. C’è qualcosa che perplime e allo stesso tempo “sublime” di questa dimensione completamente persa nella natura, e nella storia.
Un luogo spiazzante, più a sud di ogni sud. Ma Racanati, a sud, ha deciso di tornarci, e del perché ci ha scritto pure un manifesto…
Ci racconti del tuo percorso in poche righe, e ci dici che cosa ti ha portato a fare una residenza a Palermo, promossa da Spazio Y di Roma?
«Il mio percorso artistico guarda alla sfera pubblica e all’immaginario come luoghi di indagine privilegiati muovendomi all’interno di ambiti ideali quali l’arte e le scienze sociali. Sono ambiti indipendenti l’uno dall’altro, ma con dei momenti di overlapping, di accavallamento, di intersezione. La mia riflessione artistica si sviluppa all’interno di sistemi di relazioni, idee ed esperienze volte a generare connessioni con il materiale fragile dell’umanità, affrontando la questione degli spazi del sensibile, dei processi comuni e comunitari. Alla base del mio lavoro artistico vi è un interesse per gli eventi storici, per la cultura popolare e la quella di massa, visti attraverso una lente quasi etnografica utilizzando diversi materiali elevati a metafora. L’esperienza palermitana per la residenza “Living room” (curata Paolo Assenza, Ilaria Goglia, Silvia Marsano, Germano Serafini, presso lo SPAZIO Y durante l’apertura di Manifesta 12), rappresenta la prima tappa di ricerca di un progetto supportato dalla Fondazione SoutHeritage per l’arte contemporanea in collaborazione con “Puglia Circuito del Contemporaneo” (progetto ideato e diretto da Giusy Caroppo e promosso in partnership con Fondazione Ettore Pomarici Santomasi di Gravina in Puglia e Polo Museale della Puglia). Il progetto DEBRIS/DETRITI verte su una riflessione sui SUD, un SUD che travalica la geografia per sconfinare in territori emozionali, poetici e sensoriali. Un SUD come stato d’animo e luogo delle “possibili possibilità”. In questo quadro di ricerca quale miglior posto se non Palermo capitale del Mediterraneo e della rivoluzione della geopolitica a cui stiamo assistendo. Mi piace definirla così. È veramente caleidoscopica. È camaleontica, elegante, magica, possessiva, devastante, preoccupante, sensuale, insomma una perfetta rappresentazione plastica di un certo tipo di SUD».
Sergio Racanati, DEBRIS/DETRITI
Dieci giorni a Palazzo Savona, qual è il risultato che vedremo a ottobre?
«Per me il formato della residenza ha sempre rappresentato una specie di dispositivo per lo sviluppo della ricerca artistica un luogo di apprendimento (learning environment) e di sviluppo personale e/o collettivo. In ottobre presso Palazzo Savona, verrà presentato l’esito di questa mia personale full-immersion palermitana attraverso la strutturazione di particolari situazioni ibride, ambienti/set transitori e flessibili».
Il titolo di questo progetto è “Debris/Detriti”: immagino che afferisca anche al tuo Manifesto-Sud. Ce lo racconti?
«Il Manifesto rappresenta l’origine del progetto, un vero e proprio discorso per immagini. È un manifesto in cui dichiaro la mia presa di posizione a ri-posizionarmi rispetto a un SUD che travalica la geografia per sconfinare in territori emozionali, poetici e sensoriali».
Sergio Racanati, DEBRIS/DETRITI
Scrivi: “Il mio stare a SUD vuol essere un modello militantistico, dalla rappresentazione post-politica e post-ideologica intorno all’eco-sistema SUD”. Non pensi che in entrambi i casi (troppo nord, troppo sud) si possa fare militanza e allo stesso tempo restare schiacciati dai paradigmi “locali”?
«Quando parlo di SUD, non intendo esclusivamente un SUD geografico, ma un SUD come stato mentale che diventa militantistico in un quadro di micro-politica e ri-appropriazione di un’idea di localismo. Insomma, un concetto di SUD inteso come l’altra faccia di un internazionalismo coatto che sta sempre più livellando le differenze a favore di un esperanto transnazionale che ri-posizioni il SUD come un nuovo possibile archivio dell’umanità».
Pensi che il termine “queer” possa indicare una pratica dell’arte non omologata o che di nuovo faccia capo a quei luoghi “privi di qualsiasi stimolo e della fugacità”?
«Considerando il “queer” nella sua complessità mobile e porosa – e non univocamente come sistema antagonista rispetto all’eteronormatività, mi piacerebbe citare un pensiero di Judit Butler per la quale “L’identità è una pratica performativa che si fa e non si è”. In questo quadro ritengo che oggi sia veramente urgente riposizionare, attivare e sostenere discorsi, pratiche e progetti artistici che vadano a toccare queste complessità, non solo da un punto di viste estetico, ma soprattutto da un punto di vista di impegno concreto verso un rinnovamento etico e civile dei valori umani».
Matteo Bergamini