Nato per volere del suo “autore-dittatore”, il designer Federico Pepe, Le Dictateur è un progetto metamorfico, capace di tenere insieme le voci plurime del mondo dell’editoria di ricerca, del design, dell’arte e della fotografia. Da rivista a spazio creativo, sin dal 2006 Le Dictateur consente una sorta di oligarchia, assegnando volta per volta il suo spazio alla polifonica espressione degli artisti scelti e invitati. Dopo le precedenti cinque pubblicazioni, tutte all’insegna del potere evocativo delle immagini di chi ne ha preso parte, Le Dictateur n° 6 intraprende per la prima volta una ricerca ossimorica: parlare d’arte senza quella figuratività che ne ha da sempre costituito lo statuto. La sua sesta edizione, già per questo storica, ha una veste unica nel suo genere, che ricorda quasi un’editio princeps: un libro-oggetto dal design solenne e raffinato, poderoso come un trattato e prezioso come un manoscritto, dove il nero e l’oro si alternano nell’essenzialità dei simboli ripetuti.
Anche la call ha virato destinatari: a formarne l’entourage stavolta non sono più gli artisti, ma i curatori. Le Dictateur n° 6 sceglie infatti di lasciare spazio a quella che definisce la più urgente delle opere: la curatela, intesa non come scarna amministrazione dell’era post-industriale, ma come nuova forma di intermediazione artistica. A dimostrarlo, 27 curatori internazionali e un compito con un’unica regola: descrivere l’ipotesi della loro mostra perfetta usando unicamente le parole, imbastendo intere esposizioni con la sola arma del linguaggio scritto.
Perché farlo? L’arte, narrazione visiva per eccellenza, si è vista sottrarre l’egemonia nella produzione delle immagini, ora appannaggio di quasi ogni altro campo o mezzo. Forse è anche per quest’odierna bulimia visiva che Le Dictateur n° 6 ha scelto di tornare al verbo, quasi come una sottile forma di abdicazione. Dell’immagine resta solo il fantasma, l’ombra, tradotta con riquadri neri che accompagnano l’intera pubblicazione e che suggeriscono un’aura suprematista. La rimozione del visivo ci spinge verso l’arte attraverso un unico e primordiale tramite: l’immaginazione, ciò che ci rende uomini alla ricerca di essere dei.
In questo stadio zero dell’imago, si muovono i curatori e le loro narrazioni. Per citarne qualcuno, Antonio Grulli immagina, ad esempio, una Mostra d’arte degenerata senza fine, come quella voluta da Hitler per emarginare l’arte degenere, che condensò – senza saperlo – i più grandi artisti tra i due secoli. Chiara Parisi, ispirata da Chris Burden, celebra il pane, nutrimento iconico che non conosce barriera di tempo né di spazio. Domitilla Dardi opta per il design e il valore narrativo degli oggetti-testimoni dell’uomo, raccontati grazie all’innesto con la letteratura.
Per Luca Lo Pinto è il cimitero di San Michele a Venezia il luogo perfetto: un piano sequenza di epigrafi, emblema della ciclicità nonché della fermezza della vita, dove le opere diventano fantasmi di un tempo che fu e che è. Marinella Paderni parte dalle esperienze dei Situazionisti per ideare una sorta di caccia al tesoro nella città, ispirata dai binomi sperimentati in epoca covid: assenza e presenza, libertà e limite, luce e tenebre. E ancora, Mariuccia Casadio preferisce ad una mostra sui contenuti, una sulle cornici: una riflessione sui layout dell’arte, essenziali contenitori ed espositori del segno.
Al termine di questa full immersion in mostre ipotetiche, ci accorgiamo che è stato grazie all’iniziale limite – il tacere delle immagini – che sono nate queste micro possibilità di libertà. Se è vero che l’uomo è nato in cattività e non è fatto per la foresta, forse è anche vero che sono proprio quegli interstizi fugaci che ci guadagniamo e in cui seminiamo a renderci grandi pur nella miseria. Senza immagini, ciascuna proposta non può che realizzarsi nel noumeno, lì dove ogni cosa può esistere restando aperta.
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