Rembrandt Bugatti, Babbuino Hamadryas, 1909-1910, Londra, courtesy Slademore Gallery
Come ampiamente attestato dagli studi storico-artistici, a partire dal XVIII secolo, l’Italia, da centro propulsore qual era stato nel Rinascimento e nel Barocco, diviene sede di riflessione, luogo di contemplazione più che di elaborazione. Antonio Canova e Jacques-Louis David, uno italiano l’altro francese, oltre a incarnare due distinte (ma complementari) anime del neoclassicismo, segnano insieme il passaggio del testimone da un lato all’altro delle Alpi. Il XIX diviene in arte il secolo francese. In questo nuovo ruolo di faro culturale, la Francia, ieri come oggi, arroga a sé tutte le novità artistiche. Oggi un pregevole volume di Alfonso Panzetta, autorevole storico della scultura, docente dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, scrive un importante capitolo di arte italiana ottocentesca contribuendo a mutare questo rapporto apparso fino a ora a senso unico: in “Animali e animaliers nella scultura italiana tra Neoclassicismo e Novecento” l’autore ripercorre la complessa vicenda della scultura animalista in Italia, dimostrando come la produzione italiana del genere non sia mera imitazione di quella francese di ambito romantico ma elaborazione autonoma, con una storia assai più antica di quella fin qui ipotizzata.
L’autore mette in discussione il primato francese «che è tale solo perché in Italia non si è mai ragionato in modo specifico sulle fonti e sui modelli antichi che verosimilmente sono alla base di questa produzione sia in Italia che in Europa». Il volume si apre con una lunga e dettagliata fortuna critica che non a torto l’autore definisce “sfortuna”, mettendo subito sul piatto la questione centrale di tutto il lavoro. «Certo i francesi – scrive Panzetta – molto precocemente si sono appassionati a questo genere, ma l’apporto degli animalisti italiani nel panorama europeo non potrà certo essere considerato trascurabile o ininfluente, poiché i riferimenti ai modelli più importanti affondano le loro radici nella cultura figurativa italiana, costantemente disponibili per gli artisti, anche francesi, a partire dalla fine del XVIII secolo e per tutto il secolo successivo».
Considerata fino ad ora fenomeno tutto francese, nato con l’esposizione di “Tigre che divora un coccodrillo” di Antoine-Louis Barye al Salon parigino del 1831, la scultura animalista risale all’antichità. Diversi e altisonanti i modelli, dagli eccezionali esempi romani della Sala degli Animali al Museo Pio-Clementino, a loro volta debitori di modelli ellenistici, alla virtuosissima Grotta degli Animali della Villa Medicea di Castello ideata da Niccolò Tribolo, fino agli straordinari uccelli in bronzo conservati al Museo del Bargello di Firenze, provenienti dalla stessa villa, eseguiti dal Giambologna ed efficacemente definiti “ritratti” da Raffaello Borghini.
Dopo aver ripercorso con dovizia di particolari i modelli antichi, a cui sono affiancabili altri, più isolati ma altrettanto eccezionali come la Testa di cavallo di Donatello e la Capra Amaltea di Gian Lorenzo Bernini, Panzetta passa in rassegna, individuandone le opere e ripercorrendone le vicende biografiche (molte delle quali sollevate dall’ombra storiografica), tutti gli animalisti italiani attivi nel XIX e XX secolo, puri, prevalenti ma anche occasionali. Tra questi anche Giulio Aristide Sartorio, Leonardo Bistolfi, Adolfo Wildt, Lucio Fontana, Mirko Basaldella, Agenore Fabbri, Giacomo Manzù, Leoncillo. Meno occasionali nel genere sono invece, tra gli altri, Duilio Cambellotti, Lorenzo Vela, fratello maggiore del più celebre Vincenzo, Adriano Cecioni, Antonio Ligabue, Paolo Troubetzkoy, italiano nato da russi, e Rembrandt Bugatti, talmente virtuoso da essere non di rado assimilato dagli scrittori francesi ai loro connazionali. Ennesima questione di una storiografia tutta da riscrivere.
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