È un’opera straordinaria questo catalogo generale di 720 pagine edito per i tipi di De Luca Editori d’Arte, che restituisce il contributo, originale e notevole, alla storia dell’arte internazionale tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento, di Antonio Mancini, ancora oggi più apprezzato all’estero che in Italia. Un’artista che, tra l’altro, non solo ha segnato un’epoca, ma che ha anche precorso molti aspetti dell’astrattismo e della pittura informale. Artefice di questo poderoso studio, che ha richiesto parecchi anni di ricerche, è Cinzia Virno. Nonostante la notorietà dell’artista e la sua vasta bibliografia, Mancini infatti non era stato mai studiato veramente a fondo e, soprattutto, regnava la più totale confusione sulla sua vita e su molti dati riguardanti le sue opere. Cinzia Virno è stata subito consapevole che avviare una catalogazione generale su di lui sarebbe stato assai difficoltoso, perché tra i più dispersi e falsificati artisti dell’Ottocento. La nostra studiosa ha potuto sfidare questa incertezza solo grazie agli eredi del pittore che le hanno messo a disposizione il loro prezioso archivio di famiglia. Così la Virno ha catalogato precisamente 1.007 opere, tutte con oggi pubblicate con immagini, tranne una ventina, non rintracciate, di cui esiste documentazione nell’archivio (inserite con i relativi documenti nel catalogo generale, nella speranza di poterle un giorno ritrovare). Il catalogo generale comprende, poi, oltre 640 tra documenti completi e brani di documenti tratti da lettere, diari, appunti, fatture di colori, facendo una selezione tra quelli più adatti a comprendere meglio la biografia e la storia delle opere di Mancini. Opere che si ritrovano nei principali musei del mondo e presso numerosi privati, anche all’estero: per vederli – e anche per fare ricerche – oltre che in tutta Italia, Cinzia Virno si è dovuta recare più volte, in Inghilterra, Irlanda, Francia, negli USA, in Brasile e in Argentina. «È stato faticoso, ma certamente affascinante, ripercorrere le tappe della sua carriera artistica!», esordisce Cinzia Virno all’inizio di questa nostra intervista.
Il catalogo generale comprende l’opera pittorica di Mancini. Quanti dipinti dispersi hai rintracciato?
«Tra dispersi e riconosciuti – ovvero considerati dispersi perché noti alla critica con un titolo diverso dall’originale – ho rintracciato oltre 100 pezzi. Tra i più importanti ricordo: “La figlia del pescatore”, ritratto, del primo periodo, di una fanciulla in chiesa che recita il rosario. Un esempio finissimo di verismo napoletano, rintracciato quando stavo ormai per chiudere il catalogo. Ho inoltre ritrovato o riconosciuto pressoché tutte le opere citate nei registri di vendita della “Maison Goupil”, sulla cui identificazione regnava molta confusione. Tra queste: “L’Ecolier portant ses livres”, rinvenuto, presso il Musées d’Art et Histoire di Ginevra, mai esposto né pubblicato, e “L’Enfant dans un grand fauteil” che ho ‘recuperato’ riconoscendolo nell’opera oggi nota come “The sulky boy”, conservata presso il City Council Museums di Glasgow dal 1940. Inoltre il “Fanciullo mascherato”, noto anche come “Il piccolo granatiere”, realizzato da Mancini dopo il 1885, per Daniel Curtis. Uno dei ritrovamenti più significativi è stato quello dell’opera “Ultimo sonno” del 1871, un pezzo importante, esposto al Salon parigino dell’anno successivo. Era citato in una lettera scritta da Albert Cahen a Mancini e ricordato dalla maggior parte della critica come un quadro disperso. Vedendolo la prima volta mi sono resa conto che l’opera presentava un vecchio rimaneggiamento operato da qualche mercante privo di scrupoli. Erano stati coperti tutti i fiori intorno alla testa del bambino morto, per renderlo “addormentato” e così più facilmente vendibile. Fortunatamente, l’eccellente restauro fatto fare dal proprietario – al quale avevo segnalato il problema – ha riportato l’opera al suo aspetto originario. Sul catalogo, per meglio documentare la storia del ritrovamento, ho ritenuto opportuno mostrare anche il quadro nella versione rimaneggiata che, peraltro, in quel modo era stato pubblicato sul Catalogo Bolaffi del 1974 con un titolo d’invenzione: “Luigiello si riposa”. Ho anche avuto il piacere di ritrovare il “Ritratto del dottor Cera”, il medico che ebbe in cura Mancini al manicomio di San Francesco di Sales. Un’opera citata in tanti documenti d’archivio, e in qualche testo come opera dispersa, rintracciata fortuitamente presso gli eredi del dottore».
Hai scoperto anche opere che non erano note alla critica, in sostanza degli inediti?
«Sì, ne ho scoperte diverse completamente sconosciute, perlopiù all’estero. Tra queste il “Ritratto dello scultore Conway” e quello del pittore “Ralph Curtis”, ambedue statunitensi: il primo in una collezione privata newyorkese, il secondo in Francia. Il ‘ritrovamento’ che mi ha impegnato di più riguarda uno dei ritratti che Mancini fece al manager americano Sherburn S. Merrill, realizzato intorno al 1890 (un altro è presso l’Historical Society di Madison). Mi risultava da alcune lettere che la vedova del manager, Mary S. Merrill, lo avesse donato alla biblioteca di Milwaukee, che ho prontamente contattato. Non ne sapevano nulla, ma io ho insistito, pregandoli di cercarlo ovunque. Ho fatto impazzire l’allora bibliotecaria, Patricia de Frain – oggi mia cara amica – che finalmente lo ha trovato, dimenticato, da sempre, in un deposito. Abbiamo fatto una sorta di “brindisi on line” per festeggiare l’evento!».
Mancini è un artista molto falsificato. Quando hanno cominciato a falsificarlo? Quanti falsi hai epurato dalla sua produzione?
«Mancini è stato un genio precoce, ha raggiunto la notorietà da giovane – anche se il successo economico è arrivato tardi, con la mostra antologica alla Biennale di Venezia del 1920. Falsi di Mancini esistono di tutte le epoche. Sono stati fatti anche quando il pittore era vivo. I primi quadri non autografi risalgono a quando era un ragazzo, negli anni Settanta. Alcuni falsi a firma Mancini sono copie, abbastanza fedeli di sue opere, in qualche caso, anche ben fatte. Quando il nostro artista terminava un quadro, spesso lo dava in cambio di materiali per dipingere o di un invito a cena. Oppure lo affidava a qualche amico pittore per la vendita. Era incredibilmente timido e insicuro, perciò completamente incapace di gestire l’aspetto commerciale della sua attività. Sono stati questi ‘amici’ a copiare gli originali. Molti di queste copie si sono ritrovate in giro per il mondo, spacciate per autografe. Alcune, all’origine, non erano neanche firmate. Mancini ha continuato a essere copiato e falsificato anche dopo la morte. Il mondo è pieno di suoi falsi, di tutti i periodi. Oltre alle copie ne esistono altri tipi: soggetti diversi che tentano maldestramente di imitarne lo stile; finti bozzetti di opere note – peraltro Mancini non ha mai fatto bozzetti preliminari. Comunque, per approssimazione, possiamo dire che su un totale di un migliaio di quadri esaminati un buon 20% sono risultati non autografi».
Dallo studio dei documenti che riguardano l’artista, hai potuto sanare molti errori biografici che si trascinavano fino a oggi?
«Sì, certamente. Confrontando lo scambio di lettere fra Mancini, parenti e amici, ho potuto ricollocare nel giusto ordine e contesto molte sue opere, correggendone la datazione. Altre volte ho potuto desumerla imparando a riconoscere il modello utilizzato. Il principale errore che continua a ripetersi dalla morte del pittore a oggi è quello del luogo di nascita. Come già segnalato da Cecchi nel 1966, e confermato da diversi documenti, Mancini non è nato ad Albano Laziale come tanti ancora scrivono. È nato a Roma, in via dei Pianellari, ed è stato battezzato a Sant’Agostino. Non capisco perché ci si ostini da tanto tempo con questa errata informazione. Un altro errore che sono stata in grado di correggere, grazie ai documenti, è quello del rientro dal suo secondo soggiorno a Parigi, avvenuto, non nel maggio 1878 – come finora si era ritenuto – ma a metà ottobre di quell’anno. Questo è solo qualche esempio, ma l’elenco degli errori sanati sulla vita e l’opera di Mancini è davvero molto lungo!».
Mancini è stato uno degli artisti più ricercati e stimati del suo tempo. Eppure oggi ho l’impressione che sia più noto e valorizzato all’estero che in Italia. Perché secondo te?
«Le basi della sua conoscenza all’estero più che in patria erano state gettate quando era in vita, già dal periodo giovanile. I suoi estimatori, rivenditori e mecenati erano perlopiù stranieri: il belga Cahen Goupil – con la sua importante casa di vendite a Parigi con varie filiali in Europa oltre che in America e Australia – l’antiquario tedesco Messinger e, più di tutti, il pittore e collezionista olandese Mesdag, per il quale realizzò più di cento opere. Grande estimatore della sua opera fu poi il noto pittore americano John Singer Sargent che lo aiutò molto a introdursi nell’ambiente anglosassone e pronunciò, la famosa frase a lui diretta: “I’ ve met in Italy the most important living painter”, specchio di quanto fosse apprezzato fuori dell’Italia. La prima mostra personale in assoluto di Mancini fu al Pulchri Studio dell’Aja nel 1897, seguita l’anno dopo da quella itinerante negli Stati Uniti, partita da Boston. Fu così che molte delle sue opere sono “emigrate” all’estero e che ora figurano nei principali musei del mondo.
Va comunque tenuto conto che, fino a non troppo tempo fa, l’Ottocento italiano è stato penalizzato dalla critica. Quello che si studiava anche sui nostri manuali di storia dell’arte, era praticamente solo l’impressionismo francese. Per di più la ricerca di Mancini, intima e originalissima, completamente fuori dagli schemi, è apparsa a una critica, a mio avviso superficiale, vuota di contenuti. Da alcuni decenni si sono cominciati ad apprezzare artisti come Boldini e Zandomeneghi, rappresentanti della mondanità e più legati, nelle loro ricerche, alle esperienze francesi. Mancini è rimasto a lungo indietro. Solo in tempi recenti si è arrivati a comprendere che il contenuto della sua opera è la sua stessa concezione pittorica, quel modo di affrontare il vero attraverso una modalità visiva che è al tempo stesso reale e visionaria. Oggi più che mai è stato restituito a Mancini il posto che aveva e che giustamente merita a fianco dei maggiori interpreti italiani e internazionali dell’Otto e del Novecento».
Perché Antonio Mancini è un artista importante della nostra storia dell’arte?
«Soprattutto per avere costruito un percorso più che originale, unico. A volte molto in anticipo sui tempi. Mancini è stato sì un grande pittore del nostro Ottocento, e così viene perlopiù ricordato. Incredibilmente dotato già giovanissimo allievo di Morelli, è indimenticabile per i suoi “scugnizzi” napoletani sentimentalmente vicini a Caravaggio. Ma già alla fine di quel secolo e poi per il primo trentennio del successivo, fino alla morte, ha dimostrato di essere un pittore incredibilmente moderno. Le sue ricerche lo hanno difatti portato a utilizzare una pittura estremamente materica, un insieme grumoso di colori, all’interno dei quali è anche arrivato ad inserire materiali estranei come pezzi di vetro, carta stagnola, bottoni e madreperla. Anche per queste modalità ritengo che abbia precorso molti aspetti dell’astrattismo e della pittura informale. Il suo contributo alla storia dell’arte è stato dunque notevole e per molti versi deve essere ancora compreso».
Qual è il tratto più sorprendente della sua personalità o della sua opera pittorica che inizialmente ignoravi, di cui sei venuta a conoscenza durante i lavori per il catalogo generale?
«La sua capacità visiva assolutamente fuori dal comune e la sua tecnica che nel tempo mi si è rivelata sempre più straordinaria. Era incredibilmente attratto dai processi della visione di cui era un grande sperimentatore. Mi era già noto l’utilizzo che faceva del doppio reticolo, o come amava chiamarlo della “graticola” che consisteva nel mettere due grandi telai, uno davanti al modello, l’altro attaccato alla tela. Questi telai avevano al loro interno una serie di fili che formavano dei riquadri – non necessariamente regolari – identici nella loro posizione. Non avevo però inizialmente compreso quello che questo sottintendesse proprio in termini di capacità visiva. Mancini scrive che i suoi quadri vanno visti a notevole distanza – ovvero, almeno tre volte l’altezza del quadro – perché così lui li ha realizzati. Si posizionava infatti a una distanza anche di tre o quattro metri, metteva a fuoco la particella di quadro delineata dai fili che avrebbe dipinto e poi, di corsa, con il pennello a guisa di fioretto, andava a colpire la tela in maniera precisissima. Continuava così, tassello dopo tassello come nella trama di un mosaico. Ogni più piccola particella del quadro è stata pensata e realizzata con un continuo va e vieni dell’artista che era in uno stato quasi di trance durante la composizione. E andava avanti così per ore, in preda alla frenesia, concentrato e completamente avulso dal resto del mondo. Ho trovato incredibile che riuscisse a trattenere così a lungo l’immagine visiva del tassello da dipingere, e, ancor di più, come la massa informe di colori visti da vicino si ricomponesse se guardata alla giusta distanza, mostrando le forme perfettamente chiare. Mani, lineamenti realizzati con pochi tratti, apparentemente confusi ma perfetti e vivi se ci si posiziona dove l’artista ci suggerisce, oggetti, soprattutto bicchieri di vetro, ottenuti con qualche striscia di bianco che, spostandoci, prende incredibilmente forma mostrando tutte le sue trasparenze. Questi aspetti mi si sono svelati in tutta la loro portata attraverso la lettura dei diari e delle lettere ma, soprattutto, grazie all’esame diretto di tante opere del maestro».
Pubblicato il catalogo generale dei dipinti, il prossimo sarà dedicato ai disegni?
«Sì, contemporaneamente a quello dei dipinti ho iniziato a lavorare anche al prossimo catalogo che sarà sul resto della sua produzione: principalmente i disegni – in buona parte realizzati a pastello – i piatti, le mattonelle e le rarissime sculture. Il numero delle opere grafiche, più estemporanee, è naturalmente molto più vasto rispetto a quello dei dipinti. Mancini – soprattutto nei pastelli di grande formato – ha realizzato incredibili opere d’arte. La sua capacità disegnativa e coloristica anche in questo caso sono straordinarie».
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Io ho carboncino di mancini bellissimo
Buongiorno, sarebbe possibile avere un opinione sull'autenticità di un dipinto in mio possesso, firmato sul retro A. Mancini.
Grazie.
Non concordo sul fatto che mancini non abbia mai fatto bozzetti io ne ho uno se vuole le mando foto
Buongiorno..e possibile avere un opinione sul autenticità di un dipinto in mio possesso, firmato A.Mancini.Grazie
Buongiorno
Mancini non ha sempre firmato allo stesso modo si psoono conoscere in quante calligrafie si firmava
Possiedo un dipinto ad olio del Mancini. Il retro presenta delle scritte, ma adesso non ricordo, dovrei staccarlo dal muro.
In poche parole rappresenta una cascatella di un ruscello che si trova nella proprietà di un amico anch’egli pittore. Mi pare Che sia Domenico Morelli!