“Claudio Abate”, ultimo progetto editoriale sviluppato da Germano Celant prima della sua scomparsa, al quale lavorò con Ilaria Bernardi, associate editor del volume e curatrice della cronologia ivi inclusa, è ora pubblicato da Silvana Editoriale in collaborazione con l’Archivio Claudio Abate e con il coordinamento dello Studio Celant. Abbiamo intervistato Ilaria Bernardi su questa importante pubblicazione.
Come è stato concepito questo progetto editoriale?
«La vita personale e professionale di Claudio Abate (Roma, 1943-2017), uno dei maggiori fotografi dell’arte dagli anni Sessanta in poi, è una storia talmente affascinante che non poteva non essere raccontata in un volume monografico che per la prima volta la ripercorresse in modo sistematico. Il progetto della monografia – ora pubblicata da Silvana Editoriale in collaborazione con l’Archivio Claudio Abate e con il coordinamento dello Studio Celant – fu affidato nel 2015 a Germano Celant dai figli di Abate, Giulia e Riccardo. Tuttavia, il lavoro effettivo per realizzarlo si è avviato solo nel 2019 quando Celant mi propose di lavorare con lui come associate editor della monografia e come curatrice della cronologia ivi inclusa».
Qual era l’obiettivo di Celant?
«L’obiettivo di Celant era contestualizzare l’attività di Abate all’interno dell’epoca storico-culturale coeva, e far emergere, accanto al suo essere fotografo d’arte, anche il suo essere reporter, fotografo per riviste erotiche, artista-fotografo, viveur e polo magnetico per gli artisti».
Immagino vi siate trovati davanti a una mole impressionante di scatti…
«Sì, circa un milione. Infatti, data tale quantità di scatti conservati nell’Archivio Abate, con Celant decidemmo di circoscrivere la ricerca ai servizi fotografici ancora oggi presenti nell’archivio, e, tra questi, di menzionare nel volume solo quelli ritenuti più rilevanti sia dal punto di vista storico-artistico, privilegiando dunque le grandi rassegne italiane e internazionali, sia dal punto di vista del legame con la vita stessa del fotografo, privilegiando dunque le più rilevanti mostre tenute dagli artisti e/o ospitate in musei, gallerie istituzioni con cui egli ebbe collaborazioni continuative».
Al momento della scomparsa di Celant a che punto eravate?
«Al momento della sua scomparsa, il 29 aprile 2020, Celant aveva già approvato l’intera cronologia da me redatta; rimanevano soltanto da impaginare testi e immagini. La sua inaspettata dipartita ha necessariamente imposto un temporaneo arresto al lavoro per la monografia che è poi proseguito fino a quest’anno, quando il volume è andato in stampa con l’aggiunta di un testo introduttivo di Carlos Basualdo in sostituzione del saggio che Celant, al momento della sua scomparsa, non aveva ancora scritto. Il volume, di 536 pagine, include quindi il testo di Basualdo, la cronologia di 520 pagine da me curata (suddivisa in una cronologia contestuale e da un mio testo cronologico relativo alla vita privata e professionale di Abate, e corredata da una selezione di 680 illustrazioni), e una sezione di apparati espositivo-bibliografici».
Il 9 maggio, al MAXXI di Roma, il libro è stato presentato per la prima volta al pubblico. In questa occasione in cui tu facevi da moderatrice agli interventi di due cari amici artisti di Abate, Gianni Dessì e Marco Tirelli, è emersa una questione nodale: personaggi così importanti, come Abate e Celant, debbono essere considerati un monumento da celebrare e/o un faro da ‘imitare’? In caso positivo, possono essere considerati artefici di un ‘metodo’ replicabile in loro assenza? Tu cosa ne pensi?
«Se da un lato è vero che esiste una ‘struttura’ ricorrente sia negli scatti di Abate – soprattutto dagli anni Novanta in poi –, sia nel lavoro di Celant – soprattutto per quanto concerne i suoi volumi basati sulla cronologia –; dall’altro lato, a mio avviso, appare alquanto riduttivo circoscrivere a simili ‘schemi’ l’eccellenza del loro lavoro. Replicare alcuni aspetti del loro modo di operare è sì possibile, ma guardando le fotografie di Abate, così come sfogliando le monografie curate da Celant, secondo me emerge chiaramente che quell’eccellente risultato non sia tanto il frutto dell’applicazione di un metodo specifico, quanto di ben altro: ogni fotografia di Abate, così come ogni mostra e ogni volume di Celant è un unicum, poiché frutto dalla loro eccezionale capacità e sensibilità di cogliere il senso più profondo del lavoro dell’artista oggetto del loro sguardo.
Salvatore Settis, il 19 aprile scorso, a Roma, all’Accademia di San Luca, nella lectio magistralis a conclusione delle Giornate di studio dedicate a Celant, ha giustamente individuato come prerogativa dell’approccio espositivo di quest’ultimo il “mostrare l’invisibile”: rintracciare cioè, grazie alla sua innata sensibilità e intelligenza, i legami tra le opere, tra le opere e gli artisti, tra le opere e il contesto, tra le opere e lo spazio espositivo. A mio avviso, è quella stessa capacità di “mostrare l’invisibile” che ha reso eccezionale anche ogni testo e monografia di Celant, così come ogni scatto di Abate. È la sensibilità di entrambi, unica e inimitabile, nei confronti delle opere e degli artisti ad aver reso il loro lavoro una pietra miliare nella storia dell’arte.
Da qui la loro inimitabilità. In merito alla loro presunta eredità, credo dunque sia necessario comprendere che, qualora possibile, essa non possa passare attraverso un (vano) tentativo di “replicarne” lo stile, ma piuttosto nell’atto ben più complesso di indagarne e conoscerne a fondo l’operato per poi metterlo in discussione al fine di creare qualcosa di proprio: come la storia e anche la psicanalisi insegnano, è solo così che i Figli possono diventare a loro volta Padri, incidendo a loro volta nella storia».
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