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Come vivono veramente gli artisti? Un’analisi sul mestiere più contestato di sempre
Libri ed editoria
di Lara Gigante
Sostenibilità e prospettive di vita di coloro che vivono e costituiscono il sistema dell’arte. È ciò che il saggio-inchiesta di Santa Nastro, “Come vivono gli artisti?” edito da Castelvecchi Editore per la Collana Fuoriuscita, diretta da Christian Caliandro, mette a fuoco. L’approccio metodologico dell’inchiesta, corredato delle illustrazioni di Marco Raparelli, si completa di una visione narrativa socio antropologica alla Annie Ernaux, in cui “l’io” corrisponde al “noi” e il paradigma dell’individualità non è mai scorporato dal contesto in cui agisce.
Un libro che nasce da lontano, da riflessioni che da giornalista ed esperta di comunicazione del mondo dell’arte contemporanea hai colto e poi cominciato a sviluppare tra il 2018 e il 2019. È cambiato qualcosa dall’inizio di questa ricerca?
«Sono senz’altro cambiate molte cose, dal momento che nel 2020 è esplosa la pandemia che ancora oggi in qualche modo influenza le nostre vite e anche la nostra esperienza della cultura, diventando uno spartiacque evidente tra la vita “prima” e la vita “dopo”. Anche se, come scriveva Christian Caliandro proprio nel corso del primo lockdown, la pandemia è stata un amplificatore di fenomeni già in corso».
La narrazione che il sistema dell’arte fa di se stesso è forse inesatta, o incompleta, al punto da restituire più facilmente l’idea di un vita fatta di eventi e tale da far scomparire la percezione delle istanze di quotidianità comuni?
«Dal mio punto di vista, la narrazione che il sistema dell’arte ha lasciato trapelare di sé maggiormente fuori “dalle mura” del settore, è quella di fenomeno glamour, fatto di passerelle, di rassegne spettacolari, di eventi quasi di entertainment. Ritengo questa narrazione molto parziale e in un certo modo ingiusta, perché con essa si perdono molti degli aspetti invece realmente interessanti, come la ricerca degli artisti, la relazione che essi intrattengono con le comunità e i territori, gli aspetti legati all’introspezione e all’interpretazione di questo presente difficile, ma anche l’impegno dei luoghi quotidiani della cultura nel raccontare tutto questo e avvicinare il pubblico con iniziative di didattica dell’arte, ormai al centro della museologia contemporanea.
Mi contesterete: ma anche il mondo del cinema o della moda guardano al glamour (che peraltro è, insieme al divismo, centrale nel meccanismo industriale di questi settori, mentre nell’arte è puramente accessorio)! Ma è anche vero che questi due settori, ad esempio, sono stati in grado di farsi portatori di istanze molto importanti».
Ad esempio?
«Si pensi al movimento #MeToo, nato in seno al cinema americano, con una forza dirompente, o alle battaglie del mondo della moda per l’ecologia e l’ambiente (ricorderete probabilmente l’ormai già mitologico numero di Vogue privo di immagini) facendo autocritica in un settore tra i più inquinanti. E ancora la protesta dei “Bauli in piazza”, sempre durante la pandemia, che ha visto in prima linea non solo i “tecnici”, ma anche le star a sostegno delle richieste dei lavoratori dello spettacolo…».
Oltre al tema della precarietà, ricorre la necessità di una visibilità giuridica, prima ancora che personale-artistica. Da due sezioni del libro: Artisti Italiani e Artisti Italiani all’estero emerge la consapevolezza che l’arte italiana non è invisibile, ma ferma davanti ad un’assenza di riconoscimento giuridico. Quale è il punto per ripartire e non ripetersi?
«Sul tema del riconoscimento degli artisti italiani all’estero è uscito, e nel libro è ampiamente citato, il rapporto “Quanto è (ri)conosciuta all’estero l’arte italiana?”, ricerca condotta da BSS Lombard Art+ Culture, firmata da Franco Broccardi e Irene Sanesi, insieme a Silvia Anna Barrillà, Maria Adelaide Marchesoni e Marilena Pirrelli, che fa il punto in maniera molto interessante e accurata sul tema. Ciò che sembra essere mancato è stata una politica di investimento sistematico e continuativo sugli artisti italiani, anche nella loro promozione all’estero. Nell’ultimo decennio, con la nascita o l’implementazione di bandi come Italian Council, Movin’ Up e Pact, ad esempio, dei vuoti sono stati senz’altro colmati e la situazione pare essere in crescita.
Inoltre, l’impegno di soggetti come AWI – Art Workers Italia, che stanno lavorando per la diffusione di una consapevolezza oserei dire sindacale tra i lavoratori delle arti visive, è qualcosa a cui guardare senz’altro con sguardo attento e positivo, anche costruendo proposte di legge con l’aiuto di commercialisti e avvocati. La speranza è che si possano aprire, proprio a partire da tutte queste ricerche e dalla ritrovata esigenza di un riconoscimento delle specificità della, passatemi il termine, “professione” d’artista, ma in generale del lavoro nelle arti visive, nuovi tavoli di discussione collegiali per potenziare quanto fatto in passato e porre le basi di una piattaforma di rilancio verso il futuro».
Il concetto di “bellezza”, che spesso maldestramente viene affiancato a quello di “arte”, è fuorviante. Permane la sensazione che l’idea che governo e classe dirigente hanno di arte e cultura sia qualcosa di più simile all’intrattenimento e all’evasione.
«L’aneddoto che menzioni è molto interessante e offre diversi spunti di riflessione. Ricorderete tutti, durante la lettura dei DPCM serali, l’ex Presidente Giuseppe Conte pronunciare la frase “gli artisti che ci fanno tanto divertire”, con conseguente sdegno e sommossa a mezzo social da parte di tutto il settore delle arti visive. Premesso che ritengo che nemmeno il mondo dello spettacolo debba necessariamente farci divertire (può farci pensare, riflettere, piangere, rispecchiare, può metterci in discussione e sì, anche farci divertire, per carità e così via), quell’episodio è stato un chiaro esempio di misunderstanding. Conte non aveva assolutamente in mente il mondo delle arti visive, e il mondo delle arti visive si è sentito chiamato in causa da qualcosa in cui non era stato interpellato. Poi sì, certamente metterei una moratoria alla parola “bellezza” associata alla cultura. L’opera, da che mondo e mondo, funziona quando ci colpisce nello stomaco. Se ci compiace, a mio parere, c’è qualcosa che non funziona».
L’assenza di una politica di investimento sistematico e continuativo ha sollecitato la nascita di progetti come Lavoratori dell’arte nel 2011. Con un spirito ancor più fattuale e operativo AWI lavora in questa direzione dal 2020. I dati raccolti, però, rimangono piuttosto allarmanti, soprattutto per l’irregolarità dei loro contributi. Possiamo definirlo un sistema a tutt’oggi statico?
«I dati raccolti da AWI, che riguardano non solo gli artisti ma tutti gli art workers, offrono senz’altro una fotografia non felicissima del settore fatta di precarietà, di irregolarità, di assenza o scarsa conoscenza delle tematiche legate al welfare e della necessità di sovrapporre più lavori, non sempre appartenenti allo stesso settore, per garantire la sostenibilità della propria famiglia. Credo che uno dei maggiori problemi sia quello di uno sviluppo orizzontale delle carriere, invece che verticale, con una crescita o non crescita che non sempre corrisponde all’età e all’esperienza che il singolo soggetto accumula nella sua vita.
In questo gli artisti sono un esempio importante: ci sono tanti bravissimi artisti che raggiunta l’età della maturità non hanno ancora avuto una personale in un museo, non hanno partecipato ad una Biennale, e così via. L’altro aspetto è che questa sovrapposizione di percorsi professionali, quando rimangono all’interno del settore, non è solo legata alla questione economica, quanto alla presenza o “visibilità” all’interno del settore. Più sei presente e più ci sei, è quasi “richiesto”, con conseguenze sia positive che negative tutte da analizzare».
Una delle domande ricorrenti riguarda la modalità di gestione di questioni relative a famiglia, malattia, maternità/ paternità. La maggior parte delle risposte conferma una oggettiva difficoltà ad agire in queste circostanze essendo nate donne.
«Credo che l’impegno genitoriale, la questione della malattia, sia personale che familiare, il supporto in famiglia, siano ormai diventati un problema generale e generalizzato in tutto il mondo del lavoro e in questo le donne sono senz’altro i soggetti più svantaggiati. Ricordo una ricerca del Sole 24 Ore che indicava come durante il primo anno di pandemia moltissime donne avevano dovuto lasciare il proprio lavoro per poter continuare ad accompagnare i propri figli nella didattica online oppure nelle esigenze quotidiane, non avendo più il supporto di collaboratori domestici o nonni.
È chiaro che in un settore, come quello delle arti visive, dove le tematiche del welfare non sono predominanti e nel quale gli artisti hanno gli stessi diritti, pur avendo un lavoro molto differente, con momenti di riflessione molto ampi che non sempre contemplano una produzione regolare e quotidiana, di un qualsiasi lavoratore a partita iva, il ventaglio delle difficoltà si acuisce. Credo veramente che dobbiamo ritornare ad una nuova solidarietà, non solo di genere, ma collettiva, perché questi temi riguardano tutti, non solo le donne».
Si legge che spesso c’è una tendenza a delegittimare i più giovani banalizzando i loro oggetti culturali, ripetendo gli errori di chi ha preceduto. Possiamo ritenere questa indole una deriva di quella “generazione edipica”, dei nati tra gli anni ‘70 e ‘80, che fa ancora fatica a liberarsi dalle maglie dell’essere “figli” di “genitori ingombranti”?
«La delegittimazione dei più giovani non passa soltanto da parte dei nati tra gli anni ’70 e ’80, ma è un fenomeno molto più ampio che riguarda tutte le generazioni a partire dai 40 anni in su. Sta di fatto che più si parla di costruire per i giovani e per il futuro, più i giovanissimi sembrano essere esclusi da qualsiasi dibattito, e la narrazione che si fa della loro generazione è spesso ingenerosa, a volte sembra quasi essere dettata dalla paura dell’ignoto. E un po’ è la verità: non sappiamo cosa piace loro, cosa li muove, cosa li interessa e derubrichiamo qualsiasi loro atto di protesta come un modo “per saltare la scuola” o come un momento di leggerezza. Un po’ curioso, soprattutto quando questo viene da persone appartenenti a generazioni che tutt’oggi si fregiano, giustamente peraltro, di avere scardinato i conformismi e “avere ucciso i padri”.
L’invito alla mia generazione (quella dei nati tra gli anni ’70 e ’80) che senz’altro non ha ucciso i padri è quello di non ripetere gli stessi errori ma di farsi idealmente sorelle e fratelli maggiori o genitori, accompagnando il futuro e sfuggendo alla logica dell’individualismo. Questo accade ovunque e accade nel nostro settore: bisogna ricordarsi sempre che l’arte non è universo a parte, ma una fetta di mondo che può offrire qualche importante chiave di lettura in più».