30 progetti e 71 artisti per un racconto lungo otto anni, tutto da sfogliare, tra immagini e testi, nel nuovo libro che racconta la storia di Contemporary Locus, edito da Quodlibet. Abbiamo raggiunto Paola Tognon, direttrice dell’associazione fondata a Bergamo nel 2012, per farci dire di più.
Ci racconti cosa è stato, per chi ancora non lo sapesse, Contemporary Locus? Quando e come è nata l’idea e quanto tempo avevi impiegato per svilupparla prima di partire con il primo progetto nel 2012?
«È un progetto ufficialmente nato a Bergamo nel 2012 per restituire temporaneamente luoghi dismessi, segreti o dimenticati con opere e progetti site-specific di artisti internazionali. In parallelo a ciò, negli anni, lo sviluppo di residenze, progetti speciali, video-produzioni, proiezioni, talk e residenze. Posso scrivere che Contemporary Locus ricompone una geografia di spazi di età e geografie diverse ma che appartengono al presente, ciascuno dei quali individua una possibilità rimossa di vita pubblica e produzione collettiva di cultura. In questo binario dal 2012 sono stati sviluppati 14 progetti (il quattordicesimo è un libro, appunto) e 17 progetti speciali con il coinvolgimento di molti artisti, numerosi architetti, ma anche ingegneri, docenti, studenti, curatori, critici, conservatori…La sua idea nasce nel 2011, intorno a un tavolo 3 persone e nessun budget, nel 2012 i primi progetti e negli anni le altre attività».
Contemporary Locus ha reso “pubblici” spazi privatissimi o chiusi al pubblico da anni. Potremmo definire CL un attivatore di “arte pubblica” o di “arte relazionale”, oppure diresti che si è trattato vestire con l’arte determinate situazioni ibride dove l’arte “non è mai lasciata al caso e non è mai predefinita” (cito le tue parole rispetto alla pratica di Norma Jane, che a CL è stato protagonista sia con la sua discoteca nella vecchia cabina telefonica del radiotaxi si con il suo intervento con Loony Park ad ArtVerona)?
«Domanda insidiosa perché spesso è limitante mettere etichette, e ancora più calzarle ad un progetto che si compone di progettualità site specific realizzate da e con artisti di diverse nazionalità, generazioni e geografie chiamati a loro volta per luoghi molto diversi fra loro. Un’antica domus romana inabissata, una desueta cabina dei taxi, un ex diurno senza più acqua o un antico convento, ma anche una cannoniera o un mercato ortofrutticolo… E poi Norma Jeane, Kader Attia, Margherita Moscardini, Eva Frapiccini, Heimo Zobernig, Marie Cool-Fabio Balducci, Francesca Grilli, Alfredo Pirri, Vlad Nanca…
Non posso fare tutta la lista, però vorrei. Ma c’è effettivamente un filo conduttore che ordina le pratiche di Contemporary Locus: agire sempre in una dimensione pubblica per restituire una eguale responsabilità collettiva. Da ciò sono nate anche le relazioni con altri enti ed istituzioni, le pratiche attente alla multidisciplinarietà, le residenze, le produzioni, i laboratori e il condiviso passa parola tra gli artisti. In sintesi: predefinite le pratiche che per obiettivi dialogano con l’arte pubblica, sono diversi per immaginazione, pratica, obiettivi e strumenti i singoli progetti. L’arte, appunto, non è mai predefinita».
Un libro è un traguardo, e forse un congedo. Bergamo, come scrivi nelle ultime righe, è stata teatro di CL e, in questo 2020, a Bergamo si è abbattuta una realtà che mai ci saremmo aspettati. Tutto, come dici, sembra ben lontano dal riallinearsi sulle posizioni precedenti. Come si evolverà Contemporary Locus?
«Un libro è forse un traguardo, ma non nel senso competitivo del termine, quanto invece nel senso di una risposta all’esigenza di tessere un racconto ordinato dell’accaduto e restituirlo alla comunità e alle persone che, in ruoli diversi, l’hanno intrecciato. Il volume documenta l’esperienza ad oggi (2012-2020), il lavoro degli artisti e l’identità dei luoghi per definire il ruolo attivo dell’arte e dei suoi processi di invenzione, interpretazione e responsabilità.
Ma in qualche modo è stato anche un traguardo competitivo sulla pandemia, almeno nella fase del suo farsi concreto. La definitiva redazione del volume è avvenuta a Bergamo durante il lockdown (o dovremmo dire durante il primo lockdown?) quando i progetti in cantiere cadevano, amici e colleghi chiamavano per capire se la situazione fosse così tragica come appariva nei media e il team era distribuito fra nazioni e case diverse ed io non stavo poi così bene.
In quelle giornate ho creduto fosse necessario costruire un progetto che stesse nelle mani – da tenere in mano – per descrivere un’esperienza complessa. Forse anche utile per ricerche e sperimentazioni future? Per me è stato un passaggio dalla resilienza alla resistenza. Così, mentre qualcuno fra i sostenitori del libro cadeva, si decideva di aumentarne le pagine, da 160 a 192 e così via.
In quel periodo, mentre tonnellate di immagini si riversano sui nostri schermi – e ne rimanevo stordita – scoprivo che il nostro archivio aveva delle lacune perché era strutturato sulle esigenze del sito (che era ed è la nostra finestra digitale) e mi ritrovavo ad incrociare ricerche e contenuti per un nuovo progetto, quello di un libro appunto. In quella fase è stata importante l’intensa relazione con gli artisti e soprattutto la grande professionalità e pazienza di Quodlibet, l’editore che ha creduto nel progetto e ne ha curato giorno per giorno lo sviluppo (e me stessa in parte).
Perciò questo è il quattordicesimo tra i progetti di Contemporary Locus che non si riallinea alle posizioni precedenti (e sarebbe davvero stolto farlo) ma avanza nella riflessione e nelle pratiche. Mentre si ragiona sul dove e come – ma soprattutto quando – presentare il libro in realtà si ragiona anche su come proseguire la fattibilità delle cose, ma non solo quella. Situazioni e sguardi si sono trasformati, ora non ci sono solo luoghi che hanno perso la loro funzione, ma ancora più persone, professionalità, generazioni, categorie. Il senso del tempo e quello della nostro pensarsi sta cambiando.
La necessità di un’esperienza reale con l’arte non è certa diminuita, anzi si è confermata, non credi? Ma nel confermarsi indaga nuovi orizzonti, pone altri interrogativi, chiede risposte diverse. E non solo quelle della sopravvivenza alla quale vogliono addomesticarci.
Ad esempio per decenni ci hanno chiesto grandi numeri, misura delle cose e della loro “attrattività”; per il futuro riprendiamoci ancor più convintamente i nostri numeri e le nostre riflessioni. Quindi non si tratta di un congedo, e neppure di un arresto, ma di una nuova e sottile battaglia durante la quale la mente deve restare vigile e recettiva. Il libro ha infatti un sottotitolo: Arte, spazi urbani e pratiche di invenzione. Forse nel prossimo libro aggiungerò anche spazi umani. È un racconto trasparente che può essere trovato nelle librerie e nei bookshop o ricevuto a casa».
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