Il libro raccoglie i ricordi e le foto che Watson ha scattato in Marocco su invito del Principe ereditario Sidi Mohammed. Si tratta di foto in b/n (con qualche rara eccezione di colore) a 360 gradi. Si passa dagli splendidi e statuari ritratti della corte magrebina, del principe e della principessa, dei consiglieri, delle guardie reali, impeccabili e politically correct, ai ritratti fieri e lungimiranti del popolo marocchino: imperdibile il ritratto di Bihiban Ben Mohammed Oumhand, un facchino che, per l’espressione degna, fiera e vittoriosa, può essere facilmente scambiato con il re del Marocco. O forse non è uno scambio erroneo? Forse c’è davvero un re in ciascun berbero, e un fotografo esperto e sensibile come Watson riesce a scoprirlo e a renderlo visibile.
Si passa dalle vedute assolate e africane delle città imperiali agli still-lives di oggetti trovati qua e là nei souk di Marrakech o Tangeri. Dagli scorci dell’innevato Atlante a quelli delle dune. Dalle scene di vita quotidiana alle architetture.
Le stampe sono impeccabili, leggermente virate al selenio (anche se non si tratta di un progetto esteticamente coerente, giacché si passa da foto nitidissime a foto mosse, da foto pulite a foto sgranate ecc., ma tutte accomunate dallo stesso stile limpido e rumoroso); alcune sembrano addirittura stampe al platino (e forse lo sono, ma non sono io il più adatto a scoprirlo). La follia artistica di Watson consiste anche nell’emulsionare con un pennello fogli di diari scritti in arabo su cui stampare (a contatto o per proiezione) i suoi negativi, portando a una commistione visuale di immagini e parole. In questa sua tecnica assomiglia a certi lavori di Peter Beard.
Ogni immagine è commentata in arabo sulla foto stessa, mentre una didascalia in italiano racconta di lato la storia del personaggio o del luogo.
Incredibile come Watson si sia segnato i nomi di chiunque abbia fotografato, esempio mirabile di come io intendo il reportage: non un latrocinio di immagini, bensì il frutto di un contatto stretto e fiero tra uomo e uomo di culture differenti.
Tecnicamente le foto di Watson sono ineccepibili: è spesso usata la tecnica del fill flash diurno con sottoesposizione dello sfondo. I cieli riescono a essere sempre scuri senza sacrificare le alte luci: c’è grossa perizia e maestria anche nella stampa di queste foto.
Con l’avanzare nel libro si è come accompagnati all’interno dell’anima del Marocco che Watson vuole evidenziare. Pian piano si scoprono dettagli differenti dello stesso soggetto. L’idea che alla fine se ne trae è quella di una visione comunque europea del luogo: vengono fotografate le cose e le persone che colpiscono di più l’occhio cartesiano (il solo, a dire il vero) di Watson. Che non si lascia andare a sentimentalismi come i tramonti sulle dune, ma coglie quei lati esotici del Marocco che hanno sempre affascinato noi europei: le palme, mosse e illuminate di notte, i dromedari, le torri merlate, i bagni, le abitazioni fatiscenti, le teste di piranha, i souk… Ma lo fa in un modo raffinato e giocoso, sebbene sempre molto formale e molto preciso: in una parola, britannico.
Filippo M. Caroti
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