È Jacopo Carucci detto il Pontormo l’antesignano della performance, secondo l’esaustivo saggio di Teresa Macrì Slittamenti della performance Volume 1. Anni 1960-2000 appena uscito con Postmedia Books (pp.300, 24€). Un utile compendio del quale si sentiva la mancanza in questi ultimi anni, che hanno riportato alla ribalta questo linguaggio espressivo esploso negli anni Sessanta, del quale la Macrì si è occupata a più riprese con risultati eccellenti. Questa volta la critica d’arte si misura con un progetto editoriale in due volumi, che prevede di raccontare in maniera cronologica l’evoluzione della pratica performativa, classificata in questo primo volume attraverso sette tematiche differenti, che vanno dal concetto di “perturbante” al “corpo postorganico”, al quale la Macrì dedicò un libro nel lontano 1996.
La trattazione dei singoli capitoli è affidata all’analisi dei singoli performer, mettendo in luce le caratteristiche più salienti di ognuno di loro, in un excursus che abbina a figure storiche molto note quali Yoko Ono, Marina Abramovic o Vito Acconci, realtà lontane dalla ribalta come il collettivo giapponese Hi Rec Center, attivo a Tokyo tra il 1962 e il ’64 o il Guerrilla Art Action Group, fondato da tre artisti newyorchesi (Hendricks, Toche e Johnson) nel 1969 che entrarono nella lobby del MoMA con sacchetti pieni di sangue di bue per mettere in atto la performance Blood Bath.
Senza dimenticare il francese Michel Journiac, con le sue performance di gusto profondamente macabro (Rituel pour un mort, 1976) o l’inglese Genesis P.- Orridge, definita dall’autrice “identità liquida, slittante nel post-genere”. Molto corretto l’inserimento nel volume di maestri come Jannis Kounellis e Gino De Dominicis, entrambi artisti che hanno abbinato la performance ad altre modalità espressive , raggiungendo però con le loro azioni performative risultati significativi.
Apprezzabile il focus su un artista complesso e carismatico (e in Italia pressocchè dimenticato) come James Lee Byars, al quale l’autrice dedica un’analisi puntuale e brillante. Infine, nell’economia generale del volume, risulta particolarmente notevole il capitolo sulla Black Subjectivity, che illustra l’evoluzione recente della performance condotta da artisti afroamericani come David Hammons, Senda Nengudi, Ulisse Jenkins, Sherman Fleming, Lorraine O’Grady e Adrian Piper, analizzata in maniera assai approfondita. “La Black Performance (troppo spesso dimenticata e/o minimizzata) racconta una progressione storica -scrive Macrì- di discriminazione e di riscatto che, personalmente, mi coinvolge più di qualsiasi altra storia performatica”. A volte i buoni libri servono anche a portare a galla problematiche scomode ma incandescenti.
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