Guida di sopravvivenza al design per designer: il nuovo saggio di Silvio Lorusso

di - 21 Dicembre 2023

Troppo spesso il design è visto come la disciplina capace di risolvere problemi, da quelli più piccoli a quelli più grandi. Un campo d’azione segnato da una logica alla Mr Wolf – Harvey Keitel, uno dei protagonisti di Pulp Fiction, film di Quentin Tarantino. Una logica che definisce un territorio ampio e in continuo aggiornamento dove ogni cosa sembra poter entrare in contatto con il design. C’è un problema. Se tutto diventa design, se ogni dimensione entra nella sfera del progetto c’è il pericolo che questa disciplina, con le sue azioni trasformative, perda la sua ragione ontologica, la sua essenza. Prova a ribaltare questa prospettiva il nuovo, avvincente saggio di Silvio Lorusso, voce emergente della critica internazionale. What design can’t do rivela tutte le fragilità di questa narrazione mistificata della pervasività del design.

What design can’t do, Silvio Lorusso

«Quello che una volta era un campo promettente e radicato nella risoluzione dei problemi è diventato un problema in sé. L’insieme delle competenze dei designer appare traballante e inconsistente», afferma l’autore.  Uno smarrimento esistenziale prima che operativo attraversa le pagine del saggio, si ha la sensazione di un vuoto assieme politico, culturale e soprattutto di vita, che pare accomunare i tanti che danno vita a quella community che è spersa dentro le maglie di una visibilità digitale poco remunerativa e soprattutto molto spesso fittizia.

Lorusso disegna i tratti di un processo di decadimento di una professione, quella del designer, più che della disciplina in sé, tirando in ballo il concetto di iperstizione coniato da Nick Land, uno dei fondatori della mitica CCRU – Cybernetic Culture Research Unit. Tracce di futuro che galleggiano e contaminano il presente, segnali di cui si continua ad aggirare il senso, ovvero, quello di ripensare anche l’educazione al design. Con un atteggiamento a volte, apertamente provocatorio nei confronti del mondo della critica, delle istituzioni educative e culturali, l’autore rimprovera un attaccamento nostalgico ai feticci di un passato impetuosamente spazzato via dalla realtà. Un disincanto, una presa di coscienza di un mondo che sotto la spinta di fattori silenziosi: procedure burocratiche da incubo, problemi finanziari, pregiudizi di genere, stage non retribuiti, dinamiche di micro o macrocelebrità, rendono complicata la vita professionale di un designer.

What design can’t do, Silvio Lorusso

La disillusione, il disincanto, prende la forma del caos, ci avverte l’autore, indicando una prospettiva in cui la confusione «Precede il design e opera al suo interno: è la manifestazione del Reale al di là dell’illusione progettuale di un ordine stabile e duraturo. Un modo per guardare al design è la capacità di azione, cioè l’ordine che impone. Ma il design è anche, più semplicemente e fondamentalmente, yogurt e cipolle: ciò che ci rimane, il disordine in cui ci troviamo».

Risuona l’eco della lettura di Mark Fisher e il suo realismo capitalista, in cui il compianto autore inglese affermava che ci muoviamo in un mondo culturale piegato da un eccesso di nostalgia, schiavi della retrospezione e incapaci di dare vita a qualsivoglia novità autentica. Anche se qui non si è alla ricerca di nuovi immaginari, bensì di nuove consapevolezze che il mondo e il design sono cambiati.

È l’idea stessa di design come entità astratta e autonoma a essere messa in discussione: non esiste il design ma artefatti, sistemi e processi progettati, sia materiali che immateriali. Sono in gioco molteplici forze che determinano scenari dove si trovano a operare designer, bloccati tra il grande progetto della modernità e le piccole tattiche per la sopravvivenza quotidiana.

What design can’t do, Silvio Lorusso

Riformulando il noto slogan di László Moholy Nagy secondo cui il design non è una professione ma un’attitudine, Lorusso afferma che oggi il progetto è una sensibilità, una forma di vita che vuole essere riconosciuta come un lavoro ma è condizionata da fattori individuali e sociali che ne sgonfiano la realizzabilità. È questo sentimento che prende la forma del disincanto a caratterizzare la fase attuale del mondo del progetto, una disillusione palpabile, riscontrabile in particolare in quei progettisti che sono sospesi tra il desiderio di affermazione e le difficoltà di dare solidità al proprio lavoro in termini economici e culturali.

L’autore indica una serie di dati statistici a conferma della diffusione di questo sentimento, di questa condizione. In particolare è il mondo del graphic design il campo d’indagine dove l’autore individua in maniera più marcata la possibilità di definire la figura dell’everyday designer ovvero un progettista consapevole di operare in un mondo in cui tutti progettano. Si tratta di un modo per evidenziare una condizione nuova dove le divisioni basate su professionalità e competenze sono sfumate, complicate e, soprattutto, dinamiche. «L’everyday designer lavora sempre con un insieme di vincoli che non appartengono solo alla logica interna del progetto, ma alla sua presenza nel mondo, disegnano il loro progetto di vita a partire dalle macerie di ciò che è già presente – attività e carriera comprese».

Quella del progettista si definisce come una condizione più che un ruolo sociale riconosciuto, tanto che l’autore arriva a definire la pervasività del design come una forza che sovrasta gli stessi designer: il design li progetta come progetta tutti noi. Torna alla mente il claim di Enzo Mari: progettare per non essere progettati. Lorusso ci aiuta a prendere consapevolezza delle contraddizioni di un mondo dove tutto è progetto. A dare supporto anche visivo a queste criticità l’autore inserisce tra le pagine del testo una interessante selezione di meme capaci di restituire icasticamente la complessità delle questioni in gioco. Una molteplicità di elementi e fattori che richiedono un ripensamento dell’educazione al design.

Con l’efficace titolo di School as real world, Lorusso dedica la parte finale del saggio alla dimensione educativa facendosi guidare da bell hooks, attivista, donna, insegnante afroamericana che vedeva nell’insegnamento una pratica di libertà e emancipazione. L’educazione al design dovrebbe avere la capacità di proiettarsi in un mondo delle differenze in cui individuare e legittimare le molteplici soggettività trasformandole in competenze distintive da spendere successivamente nel mondo del lavoro.

Un tema, quello dell’educazione che sta diventando cruciale per le nuove generazioni di aspiranti progettisti sempre più affascinati dal mondo del progetto nella sua versione social e digitale. In questa ambiguità aspirazionale si situa l’intrinseca vaghezza del design.

«L’ambiguità delle aspirazioni ne favorisce la crescita. Aggie Toppins, designer e docente statunitense, ha recentemente sostenuto che l’imperativo più urgente del settore oggi non è più la professionalizzazione; è rendere la pratica del design una parte responsabile della costruzione di futuri equi e sostenibili», rileva Silvio Lorusso. Il disincanto non deve essere visto come un blocco o un limite ma occorre prenderlo come monito a guardare alla realtà del mondo in cui operiamo ed è proprio questo il grande merito di questo saggio, quello di aprirci gli occhi sulle trasformazioni in atto e sulle criticità che queste pongono al mondo del progetto.

What design can’t do, Silvio Lorusso, Set Margins’, 2023, 352 pagine. Illustrazioni a colori e in b/n, 13 x 20 cm. Inglese

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