Ci sono domande vitali a cui ognuno di noi vorrebbe rispondere. Eppure, spesse volte, le parole non affiorano, incagliate nella scorza della soggettività non sufficientemente allenata a esprimere il nostro vissuto. Bloccati nel “felice oblio” della quotidianità ne subiamo la tirannia, specialmente se – convinti di essere pienamente liberi – facciamo fatica a interconnetterci in un mondo sempre più meno umano e sempre più governato/intasato da dispositivi tecnologici. In realtà, tutti noi «Nasciamo nudi ma mai soli. E insieme agli altri, nel fare comune, costruiamo quella pratica artigiana che è la nostra vita». Sono parole, queste ultime, di Stefano De Matteis, tratte dal suo ultimo libro “Il dilemma dell’aragosta. La forza della vulnerabilità”, uscito per i tipi di Meltemi editore nel settembre del 2021. Un libro che è una risorsa da custodire, che si presenta come una fucina di spunti e riflessioni che preparano il campo alla Ricerca con la erre maiuscola. Da grande antropologo e ricercatore, l’autore ci accompagna in un viaggio in cui la posta in gioco è l’uomo stesso, colto nella sua vulnerabilità e sete di realizzazione, di ricerca di un senso profondo alla sua esistenza.
Il titolo del libro si riferisce all’aragosta e allo sviluppo del suo carapace che non cresce con lei, con il suo corpo molle, e dunque una corazza che col tempo si trasforma in una vera e propria gabbia di tortura da abbandonare, in attesa di crearne un’altra. Quindi, l’autore ci offre l’indicazione di un esplicito riferimento al mutamento paradigmatico che l’uomo contemporaneo deve affrontare, se non vuole costringersi in un destino di indicibili sofferenze sociali, economiche, culturali e umane.
Pertanto viene avanti per tutti la necessità di stare di fronte a imprescindibili domande vitali, quali: “Come crescere nel vuoto della nostra contemporaneità?”; “Come costruire la nostra vita?”; “Quali percorsi percorrere per uscire dalle ‘gabbie’ ideologiche, dalle strettoie del linguaggio. Come e cosa fare per superare i nostri limiti, il deficit del pensiero e di azione messi in luce pure drammaticamente dalla pandemia?” E ancora: “Quali sono le zone, gli spazi di transito veramente percorribili, non raggiungibili dalle lusinghe del consumismo e dallo obsoleto e strabico mito del progresso?”.
Ebbene, ciò che colpisce andando a fondo alla lettura, è “sentire” che l’autore è il primo a mettersi in gioco, umanamente e intellettualmente, riportando esperienze personali e altre relative agli incontri umani, al rapporto con gli allievi, ai gruppi nei vari laboratori. Da un lato un esemplare esercizio di osservazione “distaccata” della condizione umana, dall’altro una grande capacità di ascolto e compenetrazione nelle altrui vite. Come dire che l’antropologo, l’antropologia, la disciplina stessa racconta a sé stessa della connettività profonda dei contesti, del tessuto culturale e sociale in cui tutti siamo immersi e coinvolti.
Così i temi profondi emergono dall’affondo sistematico della ricerca, come quelli, ad esempio, che riguardano il “limite”, il quale trascina con sé quello della responsabilità personale e collettiva; oppure quello del “limine”, del liminale come indicazione preziosa per una società vulnerabile come la nostra, obbligata a compiere un “passaggio” epocale, necessario per costruire la vita della comunità presente e futura. Un compito per noi contemporanei – dominati dal paradigma della tecnica -, che non può prescindere dalla consapevolezza di vivere nell’indeterminatezza e perciò nell’urgenza di avviare un processo di riflessione profonda sui temi più cogenti. Un invito – quello dell’autore de “Il dilemma dell’aragosta” – all’avviamento di un processo di autoeducazione teso a “decolonizzare la mente” e a sviluppare le capacità decisionali e di resilienza nei confronti di tutte le dittature che tendono a distruggere la “singolarità” dell’uomo.
Perciò, in un mondo incerto, che si fa beffa dei giovani, in cui aumentano gli “invisibili”, poveri e reietti; in cui le vie di fuga portano ai centri commerciali; in cui i fattori di rischio aumentano a vari livelli (vedi attuale conflitto Russia-Ucraina); in cui “Il modo migliore per rimanere di buon umore è quello di non soffermarsi mai troppo a pensare” (G. Jervis); in cui “nessuna vita è una linea retta”… è necessario coltivare la creatività, sviluppare performatività, farsi mediatori, operatori nel sociale per prendersi cura di sé e degli altri. Creare stazioni di scambio di esperienze, strutturando laboratori e seminari, costruendo “scuole” di autoantropologia (come le definisce lo stesso De Matteis) per esplorare i panorami umani e sociali dentro i quali sono costruite le nostre vite.
Insomma, sviluppare la capacità di autogovernarsi la quale, suggerisce Stefano De Matteis, «Coincide con la ricerca di un significato da dare alla propria vita, nonostante la vita sia priva di scopo… Nelle poche cose che possiamo ricavare quando come l’aragosta ci denudiamo e riflettiamo riguardo al contesto e al nostro essere con gli altri, che hanno determinato la nostra vita e ci hanno reso quel che siamo. A cominciare dallo sforzo di fare e di agire senza lasciarsi omologare o sedurre dalle richieste – ragionevoli o irragionevoli – della società. Nel tentativo di affermarci come “individui unici” direbbe Bettelheim, fatti dalle proprie passioni e desideri, dal «Rispetto del proprio lavoro e il piacere che si trae dalla competenza con cui lo si svolge». E naturalmente dai ricordi e dai progetti che ci permettono di allontanarci dal pensiero della morte. E poi da «Gli interessi, i gusti, i piaceri più desiderati, tutte queste cose costituiscono il nucleo dell’esistenza autonoma dell’uomo».
Stefano De Matteis, Il dilemma dell’aragosta. La forza della vulnerabilità, Meltemi editore. 2021, ISBN 9788855194655, Euro 18.
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