Poco più di tre settimane fa è arrivato in Italia “L’anima della festa“, il primo libro di Tea Hacic-Vlahovic ambientato nella Milano di dieci anni fa, un memoir travestito da romanzo in cui Tea si racconta attraverso la protagonista immaginaria Mia – come lei, una ragazza croata emigrata da bambina con la famiglia in America per scappare dalla guerra e che, dopo esser cresciuta in una cittadina della Carolina del Nord, si trasferisce a Milano per uno scambio universitario alla NABA; dove, dopo essersi innamorata della città, deciderà di rimanere dividendosi tra discoteche, fashion week, un lavoro in showroom e un altro da spogliarellista. Uscito originariamente come “Life of the Party” dalla casa editrice indipendente Clash Books, L’anima della festa è stato pubblicato dopo un anno in Italia da Fandango Libri nella traduzione di Francesco Graziosi.
Tea Hacic-Vlahovic, che avevamo già incontrato in occasione del quarantesimo compleanno del Plastic, è una scrittrice e perfomer croata-americana, diventata leggenda delle notti milanesi con i suoi primi blog “Crumpets” e “Sugar Tits” e con l’iconica rubrica “Tea’s Tacos” su Vice Italia in cui scriveva di sé stessa e della sua vita sessuale slash sentimentale. Fondatrice del magazine STAI ZITTA, Tea è stata negli anni editorialista per Vice e Wired, redattrice di Wonderland Magazine e collaboratrice di Dazed e i-D. Oggi vive a Venice Beach con suo marito e il suo cane, Winkle, e lì registra il podcast di successo Tr*ie Radicali.
“L’anima della festa” è il suo primo romanzo e fa venire nostalgia della Milano di dieci anni fa – tra il vecchio Rocket, Twitter, la NABA e gli showroom di moda. Pur non avendo mai vissuto quella Milano, Tea la racconta in modo così reale da riuscire a trascinarti con lei a tutti gli after party, lungo le strade grigie del centro, dentro le case sottosopra di modelli e studenti universitari, nelle notti nebbiose fuori dai locali e tra le vicissitudini di un amore violento e tormentato. Dalla prima all’ultima pagina, Mia si racconta in un singhiozzante flusso di coscienza reso unico dall’ironia irresistibile e dalla sincerità disarmante di Tea, per una collezione di massime esistenziali che fanno venire voglia di riempire il libro di sottolineature e segnapagina.
Tea ti dice tutto senza peli sulla lingua: tutte le cose che non sei abituato a sentire e che forse stavi proprio aspettando di leggere. Quando la capa dell’ufficio PR dove lavora la accusa di avere un atteggiamento provocatorio, Mia (alter ego di Tea) si ribella con un aplomb spiazzante: “Le cose che dico non sono provocatorie, sono vere”, e alla risposta stizzita della sua capa, “bè, sappi che la gente le userà contro di te”, Mia controbatte brillantemente, “ma come fanno a usarle contro di me, se io per prima non me ne vergogno?”. Perché in fondo, come scrive Tea, “non c’è niente di imbarazzante se non sei in imbarazzo”.
Abbiamo raggiunto Tea per parlare di Milano, di Mia, di sé stessa, di sex work, femminismo intersezionale e di quello che ci racconta ne L’anima della festa.
Parlaci della tua relazione con Milano. Come hai vissuto la città 10 anni fa? E come pensi che sia cambiata ora?
Io e Milano abbiamo una relazione molto complicata. Ieri un mio amico italiano che vive qua a New York mi ha chiesto come mai non ci tornassi a vivere, e la risposta è che non potrei farlo perché Milano prende tutto da me: non avrei mai potuto scrivere questo libro a Milano perché sarei stata troppo presa dal vivere Milano… e poi la gente, ora mi amano solo perché non ci sono. Dieci anni fa Milano era molto diversa, era old-fashioned, tutto lavoro, sesso, potere, uomini in potere e modelle sexy – old structures. Però si divertivano in un modo molto fresh. A volte ti rendi conto che essere un po’ ignorante, o essere un po’ nel passato, ti permette di divertirti di più. Ed è giusto essere coscienti, non voler fare male a nessuno, capire che il mondo sta cambiando. Però, ora che siamo molto più aware of each other and politics, c’è molto meno divertimento. È un divertimento più falso, finto, fatto nel mondo giusto. Ed è fantastico, ma abbiamo perso quel modo di lasciarci andare. Vorrei che potessimo esplorare questa parte di noi stessi, la parte che non deve essere sempre politica. Perché certe cose non lo sono, qualche volta siamo solo animali, qualche volta sbagliamo. Ma ora non c’è tanto spazio per questo – e te lo dico da femminista. Io sono bianca e sono etero e non capisco tantissime cose del modo in qui la gente soffre, ma io stessa ho sofferto tanto, sono stata trattata molto male per voler divertirmi come una donna single, e non ho rimpianti. Non voglio che noi donne, persone di colore o queer, in generale persone marginalizzate, pensino che la vita deve essere solo dedicata a lottare per la giustizia. Non è giusto che gli uomini bianchi possano vivere pensando solo a sé stessi e a cosa vogliono fare, mentre noi dobbiamo essere super hyper aware. Qualche volta sei solo una persona che vuole vivere. L’attivismo è fantastico, e siamo tutti molto più intelligenti di quello che eravamo, molto più coscienti, ma abbiamo anche bisogno di amare noi stessi in quanto a esseri umani, individui che hanno diritto a divertirsi, all’amore e al lusso.
Credo che sia incredibilmente bello il modo in cui, attraverso Mia, riesci a parlare di situazioni emotivamente traumatiche mantenendo comunque una voce narrante ironica e lucida. È stato difficile per te raccontare certi momenti?
Mia vuole essere la protagonista della sua storia, e ognuno secondo me dovrebbe vivere come il protagonista del suo stesso film. Qualche volta capisci che il film è un film horror, o una tragedia, ma comunque quel film ha un valore, devi portarlo avanti e devi godertelo. Non puoi lasciare la tua vita, you’re stuck there. Mentre scrivevo certe parti del libro – e sai a cosa mi riferisco – cominciavo a ricordare le cose che ho fatto dimenticare a me stessa per sopravvivere, e piangevo per tipo quattro ore. Ma mi è servito per rendermi conto di quanto fossi forte, e non solo io: tutte le donne, tutti i ragazzi queer giovani che si buttano nel mondo, che vogliono fare parte di una realtà che non è fatta per loro. Noi donne siamo in un video game con solo ostacoli, e per andare dove vogliamo dobbiamo combattere fuoco, mostri, and all this shit. Prendi un ragazzo etero per esempio. Fare sesso per la prima volta di solito è una roba bella, per noi donne o persone gay solitamente è una cosa drammatica. Siamo nello stesso letto, stesso momento, ma abbiamo esperienze diversissime. E per me era molto importante descrivere questo, senza voler spiegare, senza voler dire “questo va bene questo non va bene”, perché everything is mixed, life is so binary. Ed è stato molto bello poter scrivere di questo perché quasi ogni donna che l’ha letto mi dice: so esattamente com’è stato. Al contrario, gli uomini che l’hanno preso non sono riusciti a finirlo. Ho un amico etero uomo che mi ha detto di non essere riuscito a dormire la notte dopo aver letto il mio libro. Le donne invece mi dicono che fa venire in mente la loro prima relazione!
Due cose in particolare è stato per me liberatorio leggere delle esperienze sessuali di Mia: il non aver avuto orgasmi nel rapporto ma solamente da sola, e la dissociazione dal proprio corpo. Come scrivi: “ci ho messo un paio di giorni dopo, a rientrare nel mio corpo”. Alla fine sono cose che, in scala minore o maggiore, come hai appena detto, viviamo tutte noi, ma di cui ancora si fa fatica a parlare in molti contesti.
È una tecnica di sopravvivenza, e non è sempre questione di vittimismo. Con il corpo le donne possono stare in una situazione ma con il cervello they are fucking far away. Gli uomini etero mentre fanno sesso devono essere presenti e connessi al loro pene. La vagina può fare tutto e noi siamo su un altro pianeta, like we are not even with you, I don’t even know who you are! Abbiamo imparato come farlo. Quando cominciamo a parlare di questa cosa, ogni donna sa esattamente a cosa mi riferisco. Eppure non l’ho mai letto in giro, né visto nei film, perché è solo da trent’anni che stiamo cominciando. Le donne hanno sempre scritto, eppure non abbiamo queste storie, le nostre storie. Perché guardiamo Sex and the City? Secondo me è ancora l’unico show per le donne davvero fatto bene – che poi è stato scritto da un uomo gay, a partire da un libro scritto da una donna. Abbiamo così poche possibilità di scelta… ma sono contenta che il mondo stia cambiando, le nostre storie stanno uscendo un po’ di più. Thank God.
Mia sceglie di raccontarsi liberamente, e questa, come tante sue altre scelte, è per me una bellissima forma di emancipazione. Come parleresti del tuo femminismo a qualcuno che non ti conosce?
Il mio femminismo è intersezionale e basato sul fatto che le donne sono sempre state lavoratrici. Non è un girl boss feminism, è un femminismo che vuole la libertà di scegliere e non essere giudicata. Essere critica o essere giudicante sono due cose diverse. Io non capisco le scelte di tante donne, ma hanno il diritto di fare tutto quello che vogliono, qualcuna ha diritto di fare la satanista, come qualcuna ha il diritto di fare la suora, la puttana, o la matematica. Le donne sono persone, come lo sono gli uomini. Quindi ci sono le donne che fanno schifo e ci sono le donne stupide o cattive, ma ci sono anche le donne incredibili, intelligentissime, geniali, quelle che secondo me dovrebbero governare il mondo. Il femminismo che mette il concetto stesso di femminismo in cattiva luce è quello che sostiene che le donne sono tutte perfette, o che ci fa odiare gli uomini – io amo le donne come amo gli uomini, e odio gli uomini come odio le donne. Feminism is a personal freedom. Il problema è che questa parola è stata creata per farci sembrare pazze. Una persona non-razzista come si chiama? Non c’è una parola. La parola femminista sembra che voglia mettere tutte le donne contro il mondo. In realtà noi vogliamo più property, e vogliamo i diritti.
A un certo punto del libro Mia decide di mollare il lavoro nello showroom, esausta, e di diventare spogliarellista. Sembra quasi che, a confronto con il clima “dittatoriale” del primo, il night rappresenti una liberazione, una scelta che dà a Mia potere e consapevolezza.
Quello che la gente non capisce è che in ogni tipo di lavoro che una donna fa è trattata come una sex worker, come una stripper. Mia mamma lavora in università da vent’anni, è presidentessa del suo dipartimento, eppure è pagata meno di un professore regolare che è arrivato un mese fa. Ovunque – scuole, ospedali, showroom, ristoranti – qualcuno ti tocca il culo, ti tratta male, non ti paga. Quindi a questo punto non scherziamo, let’s then go to the real thing! Andiamo allo strip club, che almeno lì è tutto alla luce del sole, tutti sappiamo le regole: gli uomini hanno i soldi e le donne devono fare i clown per prendere i soldi. Però penso che sia problematico dire sempre che è empowering essere un sex worker. Se lo diciamo troppo ci dimentichiamo di domandarci come mai viviamo ancora in un mondo in cui gli uomini hanno tutti i soldi e le donne devono succhiare cazzi. Perché questo cazzo is still running the fucking world? Quindi sì, sex work può essere empowering, ma ogni lavoro per una donna di solito è uno schifo. I capi sono per la maggior parte uomini e le donne vengono trattate come stripper. Almeno nello strip club nessuno sta dicendo bugie.
Mi sono chiesta, cosa ne pensi di onlyfans?
Da un lato è un modo molto più sicuro di molte donne di fare sex work, per non andare sulla strada o per non stare nello strip club, dove di solito c’è un manager di merda. Non per sembrare cristiana – anche perché mi chiamo letteralmente troia radicale – ma mi preoccupa un po’ il fatto che ogni donna e gay ora pensi che sia così normale avere onlyfans come side job. Va benissimo essere una sex worker, e le sex worker devono avere tutti i privilegi, tutti i diritti, tutti i soldi, absolutely no shame, però perché nel 2021, che dovremmo essere “avanti”, le professioni più vecchie (quelle che di solito gli uomini gay e le donne hanno dovuto fare perché il mondo non permetteva loro di fare altre cose) sono ancora così centrali? Mia ha provato ogni tipo di lavoro, perché alla fine fare la stripper era la soluzione migliore? Perché il mondo è ancora fatto così: le donne sono viste come un oggetto. Il problema è che ci sono sempre questi tre uomini più ricchi del mondo, and all the rest of us is just doing what we can.
Adoro quando scrivi “la gente che trova banali le feste non è mai stata a una festa bella. Una festa bella è un’esperienza spirituale. A una festa puoi vivere un’intera vita, una vita alternativa”. Ci racconteresti delle tre feste più memorabili a cui hai partecipato?
Oh my God! That’s such a good question! La prima volta che sono entrata al Rocket ero con il mio amico Mur, che è qui, e ora vive a New York… (indica Mur di fianco a lei) stavamo facendo uno scambio universitario. Il vecchio Rocket, che non c’è più ora, sembrava la Factory di Andy Warhol – tutti erano così belli, così fatti, c’era un’energia pazzesca. Ho detto, io non devo mai andare via da questo posto. La mia vita è cambiata grazie al Rocket. Penso che siano state tutte le prime feste, erano quelle più belle. La prima volta che sono entrata al Plastic è stata la stessa cosa: la mia realtà è cambiata. Quando vivi non sapendo che queste cose esistono, e poi le vedi pensi, cazzo, non posso mai tornare a chi ero prima. Anche la prima volta che sono stata alla Biennale di Venezia, al Bauer Hotel, facevano questi eventi pazzeschi, io mi mettevo nuda… sai, quando non sapevo ancora parlare in italiano, e quindi non riuscivo a esprimermi, lo facevo fisicamente. Mi mettevo nuda per dire a tutti: “I’m happy to be here!” (ride)
Com’è stato quindi per te vivere in Italia non parlando la lingua all’inizio?
Sai che per me era bellissimo, perché io sono sempre stata un’immigrata. Sono arrivata in Carolina del Nord a 4 anni, e lì mi sentivo sempre troppo croata. Poi, quando tornavo in Croazia per l’estate, ero troppo americana per i croati. Ero abituata a essere un pesce fuor d’acqua. A Milano era ormai una cosa normale per me, e infatti mi piaceva perché in Carolina del Nord mi sentivo molto chiusa, molto ferma. E a Milano il fatto che nessuno mi conoscesse, nessuno mi cagasse, che io non capissi niente mi faceva sentire come Alice nel paese delle meraviglie, era un wonderland per me. Potevo essere così libera, e tutto era così bello, così glamorous. La Carolina del Nord è la cosa meno glamourous che c’è, io non sapevo niente di moda e di arte. Milano ha qualcosa di molto speciale: è abbastanza grande per essere una città grande, ma è abbastanza piccola che tutti si conoscono e alla fine se riesci a infilarti in un gruppo giusto ti senti una stella. Il glamour è la droga più forte – non ho mai avuto problemi con nessuna droga che ho provato, ma ho avuto problemi con il glamour. It’s an hard core drug, and it fucks you up for life. Io pensavo che la moda fosse il centro di Milano, ma non è così. La gente si mette la moda per uscire alle feste, in realtà sono le feste ad essere il papà della moda.
Quanto è romanticizzato l’alter ego Mia rispetto alla tua esperienza personale?
Ogni cosa che succede nel libro è successa nella realtà. Ho cambiato diverse cose in relazione al tempo, ai nomi, al fatto che i piccioni parlano – in quel senso l’ho romanticizzato. Non volevo scrivere un memoir perché in quel caso devi spiegare perché hai fatto certe scelte, devi dire i nomi delle persone, e poi la gente ti rompe le palle. Nelle conversazioni forse ho ricordato male cosa ha detto qualcuno… ma è tutto lì, per il 95% è una storia vera. È molto più chic fare un romanzo, ed è infatti per questo che cito la frase di Lady Gaga: “quando ripenso alla mia vita, non è che non voglia vedere le cose esattamente come sono andate, è solo che preferisco ricordarle in modo artistico. E onestamente, la bugia che ne risulta è molto più sincera. Perché sono stata io a inventarla”. It is my truth.
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