Secondo bell hooks, scrittrice, insegnante e femminista statunitense, insegnare è un atto performativo, un atto di libertà. «Celebro l’insegnamento che rende possibili le trasgressioni – un movimento contro e oltre i confini – per poter pensare, ripensare e creare nuove visioni. È quel movimento che rende l’educazione la pratica della libertà», scrive in uno dei saggi che compongono la raccolta Insegnare a trasgredire (Meltemi, 2020).
Curati dal Gruppo Ippolita, i saggi di bell hooks sono una traduzione dello stesso libro che in versione originale uscì negli USA nel 1994. bell hooks infatti è un’intellettuale poco conosciuta in Italia ma che mai come in questo periodo, in cui le teorie pedagogiche e la crisi dell’istruzione sono in fase di discussione, risulta attuale. Al centro del pensiero di Gloria Jean Watkins (“bell hooks” è lo pseudonimo nonché il nome della sua bisnonna materna) ci sono la questione della razza, della classe, del genere. Il paradigma su cui ha costruito la sua dottrina pedagogica e fondato la sua esperienza di docente è quello della pedagogia impegnata come pratica di libertà: «Con questi saggi, la mia voce si unisce alla richiesta collettiva di rinnovamento e svecchiamento delle nostre pratiche di insegnamento, esortando tutte e tutti noi ad aprire le nostri menti e i nostri cuori, in modo da sviluppare una conoscenza che vada al di là dei confini di ciò che è considerato accettabile».
Insegnare a trasgredire si apre con alcuni racconti biografici in cui bell hooks ricorda di quando le scuole erano ancora differenziate per bianchi e neri e di quanto quegli ambienti ghettizzati siano stati per lei un fattore stimolante, vivo, produttivo. Al contrario, frequentare le scuole con i bianchi ha significato interfacciarsi con un mondo patriarcale e razzista in cui far parte della minoranza voleva dire essere “diversi”, oggetti e non soggetti: «Noi ragazzini neri eravamo furibondi di essere stati costretti a lasciare la nostra amata scuola per neri e dover attraversare la città per essere inseriti nelle scuole bianche. Eravamo noi a spostarci, e quindi assumerci la responsabilità di rendere reale la desegregazione. Abbiamo dovuto rinunciare a quanto era per noi familiare, ed entrare in un mondo freddo e alieno».
Il paradosso sta nel modello multiculturale, nell’assenza di un pensiero critico che riconosca le differenze di razza e classe e le affronti, perché farlo vorrebbe dire acconsentire al cambiamento.
La scuola e l’istruzione del mondo bianco e borghese e, dunque, la politica, sono il primo luogo dove queste resistenze si verificano. A molti docenti mancano le strategie per affrontare gli antagonismi e la colpa è del rifiuto di voler invertire la rotta e trasformare le istituzioni da organismi conservatori a progressisti. L’aula concepita da bell hooks è invece un’aula democratica, in cui riconoscere le diversità è il primo passo verso una “pedagogia trasformativa”.
Gli studenti devono essere messi nella condizione di avere un pensiero critico, bisogna stimolare in loro un dibattito con se stessi e con gli altri. Ma questo non può accadere senza il riconoscimento delle differenze di classe, razza e genere e senza renderle evidenti in classe come problematiche storiche e presenti. Se non si esprimere questo riconoscimento, le differenze esisteranno lo stesso ma saranno silenti ed eviteranno qualsiasi tipo di dibattito – diventeranno discriminazioni e solo il più forte, il più intelligente, il più ricco, il più bianco non avrà problemi di inibizione o discriminazione: non ci sarà un dialogo ma solo un clima austero. Gli studenti invece devono sentirsi esseri autonomi e autodeterminati per poter diventare parte attiva nel loro processo individuale – e poi collettivo – di formazione: «L’aula diventa un luogo dinamico in cui le trasformazioni nelle reti sociali si realizzano concretamente e la falsa dicotomia tra il mondo esterno e quello interno all’accademia scompare».
L’autrice riporta un tenero e perfetto esempio ricordando un’alunna nera che alla fine di un suo corso le scrisse: «Sono una donna nera. Sono cresciuta a Shaker Heights, Ohio. Non posso tornare indietro e cambiare la convinzione che ho avuto per anni che non sarei mai stata carina o intelligente come molte delle mie amiche bianche, ma posso andare avanti e provare orgoglio per quello che sono…Non posso tornare indietro e cambiare l’idea che ho avuto per anni, che la cosa più meravigliosa del mondo sarebbe stato essere la moglie di Martin Luther King Jr., ma posso andare avanti e trovare la forza di cui ho bisogno per essere rivoluzionaria per me stessa, piuttosto che la compagna o il sostegno per qualcun altro. Quindi no, non credo che sia possibile cambiare ciò che è già stato fatto, ma possiamo cambiare il futuro; sto rivendicando me stessa e imparando a conoscermi, in modo da potermi sentire integra».
bell hooks concepisce l’aula come un luogo partecipativo, in cui la consapevolezza reciproca di ognuno, docenti e studenti, nel partecipare al processo di formazione, rende lo studente un’entità attiva e non passiva, cosciente del suo processo di apprendimento e partecipazione. «Bisogna avere sete di conoscenza».
Attuare tali concetti, ereditati dal pedagogista brasiliano Paule Freire, presuppone le solite resistenze da parte del mondo dell’istruzione: istituzioni scolastiche lente nel loro processo di innovazione, aggiornamento e progresso; modifiche ai programmi didattici sterili e spesso conservatori; contenuti didattici affrontati nell’unico modo possibile, quello convenzionalmente accettato.
bell hooks incolpa i docenti di non fare scelte coraggiose e non mettere gli alunni nella condizione di esprimere la loro opinione sempre, soprattutto quando questa è controcorrente. La paura di non rispondere in modo corretto, di fare una “figuraccia”, di non essere considerati in maniera positiva da compagni e docenti, è ciò che limita la possibilità di un dialogo costruttivo. Mantenere l’ordine in classe a tutti i costi garantisce l’autorevolezza che sembra essere ancora l’unica via possibile per un insegnamento funzionante e funzionale: il retaggio di un vecchio mondo bianco e borghese che non è poi così vecchio.
«Questo è particolarmente vero per quanto riguarda gli studenti. Prima di provare a coinvolgerli in una discussione dialettica e reciproca di idee, dobbiamo insegnare loro il processo. […] È come se le persone sapessero che focalizzarsi sulla differenza ha il potenziale di rivoluzionare l’aula, e non vogliono che questa rivoluzione abbia luogo. È il violento contraccolpo che cerca di delegittimare la pedagogia progressista affermando che “ci impedisce di avere pensieri seri e una seria educazione”. Questa critica ci riporta alla questione relativa a uno stile di insegnamento differente. Come affrontiamo il modo in cui siamo percepiti dai nostri colleghi?».
Le differenti strategie pedagogiche di bell hooks si pongono come punto di rottura di un mondo borghese in perenne stasi. Non solo l’austerità conservatrice di un mondo patriarcale e bianco risulta essere uno scoglio per una pratica educativa progressista, ma anche gli stessi movimenti che si sono posti come rivoluzionari rispetto alle norme vigenti: sono un esempio i women’s studies, che bell hooks ha considerato come contenitori di soluzioni e problemi.
I primi women’s studies sono il modello disciplinare in cui ha avuto luogo un vero e proprio cambio di prospettiva, in cui il riconoscimento delle differenze di classe e di genere ha portato ad un’apertura al dibattito e al dialogo capovolgendo il concetto stesso di istruzione ed educazione come da sempre lo concepiamo. Sono inoltre l’esempio di come gli spazi, dalle piazze alle aule, possano diventare luoghi partecipativi e di condivisione della conoscenza, in cui è possibile rivoluzionare le normative dominanti.
bell hooks ne racconta anche il lato oscuro: negli anni Novanta il razzismo femminile bianco nell’ambiente accademico non ha fatto altro che escludere il discorso della razza da quello degli studi di genere, così come le prime cattedre di black studies, di cui bell hooks fu docente alla University of California, hanno escluso la questione di genere perché fossilizzati su un discorso esclusivamente antirazzista. Quello che emerge dai saggi di bell hooks è che mentre le accademiche femministe bianche erano impegnate in una corsa al successo appropriandosi dei discorsi di razza e razzismo solo a livello teorico e niente affatto a livello pratico, le femministe nere si allontanavano dagli ambienti femministi che includevano le donne bianche.
«Dobbiamo fare di più per richiamare l’attenzione sui modi in cui la teoria viene utilizzata in modo improprio. Dobbiamo fare molto di più che criticare gli usi tradizionali – e a volte reazionari – che alcune accademiche fanno della teoria femminista. Dobbiamo impegnarci attivamente per richiamare l’attenzione sull’importanza di creare una teoria in grado di far progredire movimenti femministi rinnovati, evidenziando in particolare la teoria che mina a promuovere l’opposizione femminista al sessismo e all’oppressione sessista».
Non includere nell’insegnamento la consapevolezza delle questioni relative a razza, sesso e classe è spesso dovuto alla «paura che le aule diventino ingestibili, che le emozioni e le passioni non possano essere controllate». Ma è nelle passioni – eros, rabbia, oppressioni, coraggio, riconciliazioni – che nasce l’azione e dall’azione si può creare uno spazio di dialogo differente e una visione “controegemonica” del mondo.
I saggi di bell hooks non sono un libretto d’istruzioni su come affrontare le barriere e le difficoltà dei processi pedagogici dominanti bensì testimonianze di un immaginario alternativo. Soprattutto evidenziano come queste invettive nei confronti del modello educativo autoritario siano ancora oggi spunto di riflessione. Non ci si fida del progresso, ci si impaurisce di modelli didattici a cui non si è abituati oppure se ci si fida, si procede troppo lentamente. Negli anni Novanta, bell hooks decostruiva il modello vigente, leggerlo oggi e comprenderne le analogie col presente (con le ovvie eccezioni) ci suggerisce che non abbiamo fatto abbastanza.
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