New York, 1964. Andy Warhol presenta alla Stable Gallery di Eleanor Ward, al 33 East 74 th Street a Manhattan, le sue Brillo Box. Realizzate in compensato, dipinto e serigrafato, puntano a imitare gli originali in cartone contenente pagliette abrasive per la pulizia delle pentole. È risaputo che per Arthur C. Danto, (1924-2013) – professore emerito di filosofia alla Columbia University e critico d’arte di The Nation – l’impatto con la mostra rappresenterà un momento cruciale, a partire dal quale darà inizio a una visione teorica dell’arte che influenzerà generazioni di artisti. Come è noto, molti suoi libri sono stati tradotti in italiano: si pensi a La destituzione filosofica dell’arte, a La trasfigurazione del banale, a Oltre il Brillo Box, per citarne i più conosciuti. Il merito di aver stabilito un intenso scambio intellettuale con il filosofo d’oltre oceano va a Demetrio Paparoni, saggista e curatore, fondatore della storica rivista Tema Celeste dal 1983 al 2000. Nel marzo di quest’anno è uscito il suo ultimo libro edito da Neri Pozza: Arte e poststoria. Conversazioni sulla fine dell’estetica e altro, firmato in coppia con lo stesso Danto.
Dopo una ampia introduzione, Paparoni presenta alcune conversazioni svoltesi a partire dal febbraio 1995, anno in cui il filosofo della Columbia University si trova a Milano per parlare all’Accademia di Brera. Il carteggio proseguirà negli anni attraverso fax e poi e-mail. Paparoni avverte il lettore che lo scambio intellettuale con un filosofo, e l’indubbio interesse che esso suscita, «non equivale ad aderire in toto alla sua visione». Aggiungendo che: «Ogni intellettuale ha dei punti di riferimento, ma non li considera il proprio Vangelo».
Si arriva, dunque, al nocciolo della questione scatenata dai Brillo Box che, per Danto, equivale a uno spostamento significativo avviato dall’arte sul binario della filosofia. E lo spostamento coincide anche con la differente formulazione della domanda impostata non più su “Che cos’è l’arte?” ma su “Perché una certa cosa è opera d’arte quando un’altra cosa esattamente uguale non lo è?”. Così il filosofo riaccende il fuoco di quel tormentone inaugurato da Duchamp con i suoi ready made: oggetti inutili e privi di significato la cui funzione era quella di dire “altro”, ovvero di attestare la preponderanza dell’intelligibile sul sensibile.
Con tali operazioni, il valore visivo è messo in secondo piano per far emergere le motivazioni filosofiche. Queste ultime, per Danto, più che da Duchamp, sono evidenziate proprio dal Warhol del Brillo Box. Come sottolinea Paparoni: «Warhol con la sua opera pone una serie di domande filosofiche che la scatola del prodotto commerciale non pone. A partire da queste considerazioni si può capire perché Danto veda in Warhol assai più che in Duchamp il primo artista a testimoniare che l’arte, giunta alla fine del suo percorso, non è più in grado di dare una definizione di se stessa. Ha dunque bisogno della filosofia per esplicitare le proprie ragion d’essere».
Come è noto, con questa tesi Danto va a braccetto con Hegel delle ultime lezioni di estetica del 1828, in cui il filosofo di Stoccarda teorizza la fine dell’arte, allorché quest’ultima – sottolinea Paparoni parafrasandolo – «sarebbe giunta alla fine del suo percorso quando non fosse stata più in grado di dare una definizione di sé stessa, lasciando questo compito alla filosofia». Naturalmente, più che “una morte dell’arte”, come si è comunemente frainteso, si tratta di una svolta, di un nuovo orientamento che non inficia la percorribilità dell’arte su altri binari, compresi quelli tradizionali come la pittura, del resto mai negati dallo stesso Danto, grande estimatore del pittore Sean Scully.
La svolta, raccolto il testimone da altre generazioni di artisti, comporterà successivamente il passaggio da posizioni postmoderniste citazioniste e neoespressioniste a un orientamento poststorico, lontano da una visione lineare e progressiva dell’arte. Ma in realtà «A giungere al capolinea – precisa Paparoni – non è l’arte, ma un certo modo di intenderla e, con esso, un certo modo di fare critica d’arte». Così su questa nuova onda brilleranno gli Appropriazionisti, come Cindy Sherman, Sherrie Levine, Richard Prince, David Reed, Mike Bidlo, Roman Opalka, Hiroshi Sugimoto.
«Quando andiamo a vedere una mostra d’arte moderna e contemporanea – scrive Paparoni – e ci troviamo davanti a un’opera d’arte non cerchiamo qualcosa che ci riconduca alla ricerca del bello. Laddove un nostro commento di approvazione ci porta a definire “bella” un’opera, intendiamo che essa ha stimolato in noi un’attenzione particolare per il modo in cui è fatta, per le implicazioni che contiene e per le considerazioni che è capace di stimolare. A farcela riconoscere carica di tensione e “ben fatta” non sono la composizione, il senso della proporzione, l’armonia degli accostamenti di colore. Ad attrarci è il fatto che essa è più stimolante per la nostra mente che per la nostra retina».
A nostro avviso, rendendo onore allo spirito della trattazione e immaginando un dialogo continuo con l’autore, avanziamo alcuni dubbi filosofici sul concetto di indiscernibile, quando Danto teorizza sui Brillo Box. Questi ultimi – rispetto agli originali prodotti commerciali – sono in realtà indiscernibili soltanto in fotografia, la quale annulla le differenze. A essere rigorosi, bisogna ammettere che c’è differenza tra il concetto di identico e il concetto di simile o uguale. Se l’opera è simile il concetto di indiscernibile crolla, a meno che non si voglia esperire la realtà dell’evento artistico esclusivamente attraverso la riproduzione fotografica. Infatti, si sa che dal vivo l’occhio nota le differenze, non è mai del tutto innocente, per quanto l’artista visivamente cerca di ingannarlo.
La locuzione «esattamente uguale», come formulata da Danto nello spostamento paradigmatico della domanda sopra riportata è quantomeno ambigua, in quanto anche un volto esattamente dipinto è uguale o simile all’originale vivente ma non è identico. Visto che l’identico esclude le differenze – l’indiscernibile appartiene alla riproducibilità di un oggetto dal punto di vista molecolare e quanto altro: due bicchieri, due cucchiai, auto ecc. – con i Brillo Box siamo ancora nell’ambito della verosimiglianza, pittoricamente e plasticamente realizzata; benché rivolta a un oggetto comune senza alcun appeal estetico. Ma su questo, immaginiamo, si potrà continuare a discutere.
Insomma il tormentone filosofico continua e al lettore rivolgiamo l’invito a immergersi in questa stimolante lettura.
Demetrio Paparoni, Arthur C. Danto, Arte e poststoria. Conversazioni sulla fine dell’estetica e altro, Neri Pozza editore. I Colibrì, 2020
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