Una possibile traccia iniziale del percorso che ha portato Luca Beatrice alla stesura di questo testo potrebbe essere rintracciata nella curatela, dal 2009 al 2011, di tre mostre in concomitanza con il festival musicale estivo Traffic di Torino. Nelle sale dell’Accademia Albertina di Belle Arti, il critico e curatore ospitava, rispettivamente per le prime due edizioni, la mostra Creek di Antony Hegarty (in arte Antony and the Johnsons) e una riproduzione della mostra The Drawn Blank Series di Bob Dylan.
Nell’estate del 2011, la sezione del festival rivolta all’arte si era concentrata sulla scena nazionale, raffrontando il lavoro e la poetica di tre artisti italiani con le dinamiche sociali e strutturali che avvicinavano la loro opera al mondo della musica rock e pop. Il curatore indicava la strada di una contaminazione fra arte e musica che aveva preso avvio negli anni Sessanta coi dipinti di Mario Schifano, per svilupparsi attraverso il fumetto di Andrea Pazienza dalla seconda metà del decennio seguente, in cui debuttava anche il giovane Mimmo Paladino.
Il testo che ora Luca Beatrice pubblica per Rizzoli contiene il risultato di un lavoro di ricerca che, partendo probabilmente dalla relazione tra estetica contemporanea e musica, sembra essere giunto a tenere in considerazione gli stretti rapporti tra l’arte e le più disparate forme spettacolari, divulgative e pubblicitarie. La colonna sonora, di cui il volume si nutre come di uno sfondo epocale, spazia da Marianne Faithfull a Bryan Ferry, da Amanda Lear a Sid Vicious.
L’impianto spettacolare non è inteso dall’autore come un semplice veicolo di comunicazione o come un complesso apparato filosoficamente giustificato. Sulla scorta delle riflessioni di Guy Debord, il mondo dell’arte e dello spettacolo garantisce un particolare rapporto sociale tra le persone, mediato dai contenuti. Riconsiderata alla stregua di ogni prodotto di consumo, l’opera vive della sua immagine: deve sedurre e apparire. Ogni operazione può, così, vestirsi di pubblicità per creare uno pseudo-bisogno. Questo spostamento di importanza sulla forma rispetto al contenuto richiama alla mente proprio i primi lavori dell’arte pop: riflessione e, al contempo, messa in discussione dei legami tra pratica artistica e show business.
L’approccio cronologico della trattazione sembra sottendere la volontà di applicare una visione d’insieme che tenga conto dello svolgersi della storia delle idee. Esasperazione del Decadentismo e fascino dandy sono amplificati, alle porte del postmodernismo, dagli atteggiamenti di Salvador Dalì. Personalità bizzarra, i suoi ultimi sforzi saranno percepiti dal pubblico come tentativi contemporanei di far rivivere l’eroe romantico all’interno di strutture di mercato, per creare luoghi di convergenza tra collezionismo, valori estetici e venerazione. Tuttora, una visita alla Fondazione Gala-Dalì è assimilabile, per molti visitatori, ad un viaggio in un parco a tema. In questo senso, le torri d’avorio dell’arte fin de siècle crollano e, conseguentemente, i confini della prassi museale si allentano. All’interno del libro, si apre un varco in cui, spontaneamente, si insinuano gli altri star artists.
Riproducibilità tecnica e ruolo dell’artista nella società introducono l’opera di Andy Warhol e delineano un punto di contatto tra la contemporaneità e l’esasperazione tipicamente americana per la creazione di miti e per gli affari.  In questo solco, vediamo sfilare Jean–Michel Basquiat e Jeff Koons. Il primo, in bilico le contraddizioni politiche e razziali, vive la propria popolarità intrappolato nella sregolatezza e negli eccessi. Il secondo getta le basi per una nuova concezione dell’artista contemporaneo. Approfondendo l’esperienza della Factory, si insinua, con atteggiamento da businessman, all’interno del sistema del collezionismo. Gioca con i meccanismi mediatici e piega lo star system alle esigenze di un mercato elitario.
Porta d’ingresso al mondo globalizzato e radical-chic, l’operazione artistica si fa target che può addirittura spianare la strada ad un’eventuale produzione mass market. Damien Hirst e Maurizio Cattelan rappresentano i due poli di questo nuovo mondo. Comunicatore trasgressivo ed estremo, Hirst rappresenta l’artista punk, innovatore e politicamente scorretto. Cattelan, sfuggente ed evasivo, incarna la radicalizzazione concettuale del mondo mediatico e pubbliciario. La loro singolare invenzione dell’artista come star, a questo punto, diventa il risultato di un’irriverente e speculatrice accezione dell’arte, definitivamente allontanata da ogni aspetto educativo e ormai inscindibile dalla personalità dell’ideatore.
di ivan fassio